Sì, è sempre vero che, come insegna il buon Stephen King, per scrivere bene bisogna leggere tanto e scrivere tanto. Ma spesso si possono anche trarre spunti da altre forme di narrazione: è quello che vorrei fare oggi parlandovi di “The Office” (per intenderci, la versione americana…) e di un importante lezione che questa serie televisiva ha da offrire: l’importanza cruciale della caratterizzazione dei personaggi, dell’equilibrio del loro “arco narrativo” e di come si relazionano tra loro.
Il contesto della fortunata serie di Ricky Gervais e Steve Merchant è esplicitato dal titolo: beh, sì, l’ufficio. E neanche uno dei più dinamici o interessanti, anzi: stiamo parlando di un rivenditore di carta a Scranton, una città di medie dimensioni della Pennsylvania, non esattamente di una start-up all’ultimo grido nella Silicon Valley o una prestigiosa società di consulenza a NYC. Che barba, che noia; eppure, stiamo parlando di una serie in grado di intrattenere e appassionare lo spettatore per nove stagioni, cosa più unica che rara. Come è possibile tutto ciò? Beh, appunto, grazie ai personaggi. Eppure, gli impiegati della Dunder Mifflin non sembrano esattamente persone con cui vorresti trovarti di fianco in un volo intercontinentale: ossia un mix di ventenni già disillusi, arrivisti poco credibili, contabili pignole, cinquantenni che passano dal sudoku al mitico Solitario di Windows pur di far trascorrere le otto maledette ore dal timbro del cartellino. Per non parlare del “boss”: un narcisista dal pessimo senso dell’umorismo, compatito o apertamente osteggiato dal resto della baracca. Insomma: la tipica fauna da ufficio! Ma è proprio questo il punto: nel variopinto cast di “The Office” è facilissimo ritrovare i nostri colleghi, il nostro capo e, anche se non ci farà piacere ammetterlo, anche noi stessi…
E fin qui, in realtà, niente di eccezionale: la capacità di creare personaggi magari non proprio “realistici” (altrimenti, sarebbe fin troppo noioso) ma comunque plausibili non è certo un espediente narrativo sofisticato, anzi, dovrebbe essere comune a tutti gli scrittori di narrativa non dico neanche bravi, ma almeno decenti. Trovo invece ben più difficili da realizzare altre due cose che “The Office” fa molto bene: mantenere i personaggi interessanti nel lungo periodo senza trasformarli in macchiette caricaturali (il difetto di molte serie televisive “lunghe”, ma anche di molti romanzi), e, soprattutto, curare ed evolvere le interazioni tra di loro senza che risultino stucchevoli, prevedibili o forzate.
A proposito di evoluzione, per fare un esempio concreto, prendiamo un personaggio “principale” e uno “secondario”. Dwight, con la sua pettinatura e i suoi modi di fare imbarazzanti, è forse il più rappresentativo del cast di “The Office” dopo il capo Michael. Da subito, ci viene presentato come il personaggio “bizzarro”, quello che del resto si può trovare in ogni ufficio degno di questo nome, ma con differenze marcate rispetto all’archetipo del nerd: innanzitutto non fa il responsabile IT, ma il commerciale, tra l’altro con ottimi risultati; il suo problema è invece la difficoltà nel rapportarsi con i colleghi, con i quali tende a creare rivalità esilaranti (in primis quella con Jim), e con le esponenti del gentil sesso. Sarebbe stato fin troppo facile, con il passare delle stagioni, trasformare Dwight in un socievole dongiovanni, oppure farlo regredire e peggiorare; invece lo scontroso ma ambizioso coltivatore di barbabietole sembra rimanere lo stesso di sempre nei modi di fare e di relazionarsi con gli altri; cambia invece il suo modo di pensare, di vedere se stesso e gli altri, il che però non viene manifestato platealmente, ma in modo subdolo, attraverso piccoli ma significativi indizi, almeno fino al finale. Phyllis è invece uno dei numerosi personaggi “marginali”, che nella prima stagione hanno uno scopo più che altro caricaturale: lei è la “mamma orsa” dell’ufficio, più spesso impegnata con i ferri da maglia che con la tastiera o il telefono e, a differenza di altri personaggi femminili, è sempre fuori dai giochi di coppia che spesso, e “The Office” non fa eccezione, portano avanti la trama di fondo delle serie televisive. Eppure a Phyllis, anche se non esce mai dal suo ruolo di impiegata tranquillona e confidente per le pene d’amore dei colleghi più giovani e attraenti, basta qualche breve scena qua e là per rimanere nel cuore degli spettatori, a volte dimostrando un insospettabile cinismo, e altre volte uscendosene con commenti decisamente fuori dalle righe, che lasciano trapelare una vita matrimoniale alquanto focosa. Molto intriganti poi la rivalità con Angela e il cameratismo con un altro impiegato fancazzista ma dalla vita privata sorprendente, Stanley.
Parliamo quindi delle dinamiche tra i personaggi: ho già citato le prevedibili (ma, nella maggior parte dei casi, credibili e ben costruite) storie d’amore più o meno durature, ma il maggior pregio di “The Office” è forse quello di rappresentare in modo plausibile il legame che si forma tra due persone che non andrebbero mai a bere una birra assieme per evidente differenze di indole e interessi, ma che si trovano costrette a passare buona parte della giornata lavorativa fianco a fianco. Un rapporto che in alcuni casi si rivela da subito vicino a un amicizia cordiale, in altri invece sembra più un’accesa rivalità, ma nella maggior parte dei casi oscilla periodicamente tra i due estremi. Per fare qualche esempio che non si riveli spoileroso, è impossibile non citare il continuo scambio di frecciatine e scherzi tra Dwight e Jim, e la sua evoluzione nel corso della serie, oltre all’interesse romantico tra Jim e Pam, a mio giudizio uno tra i più credibili mai visti in una serie televisiva. Ma anche tra i personaggi minori esistono delle meccaniche memorabili, come quella tra i tre responsabili dell’amministrazione, Oscar, Angela e Kevin, apparentemente diversi tra loro che più non si può, e invece uniti da una sinergia invisibile.
A pensarci bene, sono proprio queste relazioni “banali” (lo sono solo in apparenza) tra personaggi “marginali” (ma fondamentali a creare un contesto ricco e plausibile, perché francamente le sitcom in cui 5-6 personaggi interagiscono costantemente fra di loro e basta hanno un forte problema di credibilità) a rendere “The Office” una serie memorabile. Ah, dimenticavo: non dimentichiamoci che questa è una delle poche serie che celebra i vantaggi della lettura in digitale, con una piccola ma memorabile scena di Darryl.
In chiusura: se volete che il lettore rimanga incollato (beh, non letteralmente…) al vostro romanzo, la trama, l’ambientazione, lo stile di scrittura, la leggibilità, la coerenza interna, il ritmo narrativo e tanti altri fattori entrano in gioco, certo; però dei personaggi ben caratterizzati, con un arco narrativo chiaramente definito e che intrecciano relazioni interessanti tra loro possono davvero fare la differenza. Non trascurate i vostri personaggi: in fondo, sono in un certo senso come dei figli per voi!
Marchetta 1: in tema di personaggi, è impossibile non consigliare un nostro “classico”, Lo Strano Caso di Michael Farner” di Lorenzo Sartori… per capire perché, leggetevi la sinossi!
Marchetta 2: se avete già scritto un romanzo e non siete sicuri che i vostri personaggi siano memorabili o plausibili, il nostro servizio di valutazione (nb: consulenza a pagamento per autori indipendenti) potrebbe fare al caso vostro: scoprite di più qui.
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