Articolo a cura di Giacomo Festi, autore per Nativi Digitali Edizioni di “Storia di Uomini Invisibili” e blogger per conto suo qui.
È noto che ora i nostri palinsesti televisivi possono godere di Masterpiece, nuova frontiera del talent show, il programma che dopo innumerevoli trasmissioni a tema musicale cerca di rendere noti i ‘signori nessuno’ che tenevano il proverbiale manoscritto nel cassetto.
Personalmente io non guardo molto la televisione, ma non posso negare che un’operazione simile mi ha messo parecchia curiosità. Alla fine si parla sempre di letteratura, quindi chissà che forse non si possa imparare qualcosa. Morale della favola: sono andato a cercarmi la prima puntata in streaming.
Apriti cielo!
Non solo il vedere Giancarlo de Cataldo, il leggendario autore di Romanzo criminale, fare parte della giuria mi ha lasciato basito (non vi dico poi quando ho scoperto che è uno degli autori), ma il peggio è venuto nel vedere i concorrenti del programma. Un coacervo di stereotipi e banalità che manco nelle peggio telenovele sudamericane. Abbiamo quello sessualmente frustrato (e lo vai a dire in tv?), la casalinga che vuole dimostrare di più, l’ex galeotto, l’immancabile ragazza alternativa che vuole sfogare il suo passato tormentato e tormentoso, e via dicendo… Insomma, sembra che chi scrive non possa essere felice a priori. Alla fine mi è anche passata la voglia di finirla…
Quindi cos’è che si può criticare?
Una cosa che non si è finita non la si può giudicare. Questo vale per i film, i libri e via dicendo. Sarebbe come valutare Star Wars avendo visto solo La minaccia fantasma. Ma più passava il tempo – sì, ci pensavo perché uno show simile mi ha davvero turbato nel profondo – più mi rendevo conto che il problema non stava tanto in quello che veniva mostrato, quando nel mondo al quale tutto quello appartiene. Perché anche se a conti fatti ci sono programmi decisamente peggiori, Masterpiece è un talent, e come ogni talent credo sia la cosa più diseducativa che possa esserci.
Certo, ci sono i reality e via dicendo, ma a mio parere la differenza fra un X-Factor e un Grande fratello è implicita nella loro coerenza. Che non sempre vuol dire qualità, ma a conti fatti alla fine vengo a preferirla. Così come posso preferire la cafonaggine di un Pacific Rim al finto intellettualismo dei film di Lars Von Trier, per dirla tutta.
Un talent show altro non è che un programma che prende degli ‘artisti’ sconosciuti e che cerca di lanciarli in quella che è una carriera artistica, con tanto di insegnamenti da esponenti del media al quale si vuole appartenere e via dicendo. Insomma, quello che in circostanze normali farebbero tutti, solo che in ben pochi possono permettersi di avere Morgan o Mika coma insegnanti di canto. Quindi abbiamo modo di vedere in diretta tv tutto quello che una persona normale dovrebbe fare nel suo tempo libero per coltivare una propria passione, abusando anche del lancio fornito dalla televisione.
Quindi, fra pianti e liti interne, si assiste sempre alla maturazione di queste nuove creature del pubblico, fino al vincitore finale. Senza contare però che il solo vederle in televisione fa aumentare esponenzialmente la loro visibilità o gli iscritti al loro canale youtube, o i visitatori al loro blog. E sinceramente, viene da chiedermi una sola cosa: è giusto tutto questo?
È giusto il saltare quel lungo processo chiamato gavetta? Quel momento della vita in cui non sei nessuno ma fai di tutto per riuscire ad emergere, pezzetto per pezzetto? D’altronde pensiamoci, Philip K. Dick per anni ha pubblicato per delle case editrici indipendenti, Sam Raimi ha realizzato il suo primo film con una manciata di spicci e Bukowski ha lavorato alle poste per potersi guadagnare da vivere. Nessuno di loro è ‘nato imparato’, ma col tempo sono diventati tutti e tre delle leggende. Sì, anche Raimi. E penso che lo siano diventati grazie a tutti gli sforzi e le privazioni che i loro sogni hanno richiesto. Tutte cose che un talent, con tutta la sua sovraesposizione, fa passare oltre. Perché sembra che al giorno d’oggi basti apparire in televisione per essere qualcuno, anche se non si è nessuno. Quindi è meglio uno sforzo maggiore e un’autocoscienza personale fatta attraverso la fatica, o un successo immediato che con altrettanta velocità è destinato a spegnersi?
Per questo motivo a volte mi viene quasi (e ripeto, quasi) da preferire i concorrenti dei reality perché alla fine sono lì per una cosa sola: soldi e successo. E non pretendono di essere chiamati artisti.
I reality quindi saranno merda, ma a conti fatti sono molto più coerenti.

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