“Tokyo Vampires 1987” di Alessio Filisdeo

“Tokyo Vampires 1987” di Alessio Filisdeo

«Quanti ce ne sono? Trentacinque?» ammiccò ai corpi spezzati e dilaniati: «E guardati, nemmeno un graffio. Billy-kun, mi riveli il tuo segreto?»
Il gaijin si voltò, spinse i Ray-Ban sulla punta del naso e sogghignò: «Sono un vampiro.»

 

Capitolo zero della saga del Vampiro Nik (tutta la saga su Amazon)

Pagine: 400 (circa)

Formato: Ebook e Cartaceo

Genere: Fantasy contemporaneo, Pulp, Retrowave

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Categoria:

Descrizione

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Giappone, 1987. Billy, al soldo della yakuza di Kyoto, è uno dei migliori killer presenti sulla piazza. Alcuni pensano che sia uno psicopatico dal grilletto facile, altri che sia soltanto fortunato. Nessuno immagina che la sua passione per il sangue nasconda in realtà lo smodato bisogno di nutrimento proprio di ogni vampiro. Inviato a Tokyo per un lavoretto ad alto rischio, Billy si ritroverà invischiato in una storia molto più grande di lui: un’antica faida tra creature immortali capaci di fargli rivalutare la sua posizione all’interno della catena alimentare.
Dallo skyline di Shibuya alle insegne al neon di Kabukicho, fino alle pagode delle grandi fortezze del periodo Edo, mentre i punk dalle creste fluorescenti, armati di boombox e coltelli a scatto, inondano le strade di violenza: bentornati nei favolosi anni ’80!
Con uno stile sfacciatamente pulp e un umorismo tagliente come una katana, in Tokyo Vampires 1987 Alessio Filisdeo ci svela la genesi del vampiro Nik in un viaggio attraverso la cultura pop nipponica, dove la notte non ha mai fine e la morte non è che l’inizio, perché non c’è “Nessun riposo per i cattivi ragazzi”.

Informazioni aggiuntive

Estratto gratuito

CAPITOLO DUE

MISTER FAHRENHEIT

La radio della Toyota Hachi-Roku risuonava delle note di True. Ai gaijin non piacevano le cover dei loro successi, ma quando mai quegli imbecilli avevano capito qualcosa di musica!
Il detective Awano Murata adorava la versione giapponese degli Spandau Ballet, e l’avrebbe apprezzata ancora di più se non fosse stato per le scariche intermittenti del canale della polizia, quel monotono gracchiare statico intervallato dagli aggiornamenti delle pattuglie, coi loro codici di procedura. Fu tentato di spegnere la strumentazione di servizio, un vero sfregio montata su un’auto così elegante, ma dopo un istante di esitazione decise semplicemente di alzare il volume della canzone.
La prudenza prima di tutto.
Aveva lavorato sodo per arrivare a quel punto. Rilassarsi, abbassare la guardia proprio in quel momento sarebbe stato da idioti, e lui non era un idiota.
Si accese una Seven Stars vomitando il fumo nell’abitacolo buio, picchiettando il volante al ritmo dell’assolo di sassofono. Dal suo posteggio guardò fuori del finestrino, oltre i vetri bagnati dalla pioggerellina primaverile, in direzione del Mirage.
Le sgargianti insegne al neon di Nakagyo erano ancora tutte accese, e l’asfalto, pieno di pozzanghere e di petali di ciliegio, mandava un centinaio di riflessi colorati. Dicevano che era il segno del progresso, la prova che Kyoto stava finalmente abbracciando il ventesimo secolo.
A Murata non piaceva quel tipo di occidentalizzazione, il verde ricoperto di cemento, l’orizzonte spezzato dalle cuspidi di vetro dei palazzi. Per non parlare del traffico.
Fortunatamente alle quattro del mattino persino lì, in centro, fiore all’occhiello della nuova riforma urbanistica in atto, le acque erano calme.
Poche automobili. Pochi civili, nessuno dei quali abbastanza sobrio da rappresentare una minaccia.
Il distretto notturno andava svuotandosi. I locali chiudevano. Le hostess e le puttane rincasavano sui loro tacchi a spillo. Difficile distinguere le une dalle altre.
«Tieniti pronto, Billy-kun .» disse il detective rivolto allo specchietto retrovisore, alle due fredde iridi cangianti sospese nelle tenebre, proprio nel mezzo dei sedili posteriori: «Ti ricordi del piano, sì?»
Nessuna risposta.
«Vuoi che lo ripassiamo? Per sicurezza…»
L’oscura presenza non emise fiato, troppo concentrata ad armeggiare col rompicapo rotante.
Awano non poteva vederlo, ma sentiva lo schiocco meccanico del cubo a sei facce, il frenetico incastro delle file quadrate che scorrevano attorno al nucleo centrale.
«Niente pistole. Niente lame. Pestali a sangue, rompigli le ossa, spezza qualche braccio, o gamba, o il cazzo che ti pare, ma non ammazzare nessuno. Chiaro? Non ho voglia di compilare le scartoffie, e i cadaveri sollevano troppe domande.» sciorinò pazientemente Murata: «Basta che me li metti fuori gioco. Al resto penserò io. Credi di poterlo fare?»
Ancora silenzio. Solo quel maledetto giocattolo di plastica che scalciava tra le dita del bastardo.
«Allora? Sto parlando con te!» il poliziotto si voltò improvvisamente, illuminando con le braci della sigaretta il viso del passeggero: «Ci siamo capiti?»
Finalmente il cubo di Rubik smise di roteare, e gli occhi tremendamente azzurri dello straniero incontrarono l’espressione frustrata del detective: «Spegni quella merda di musica. Per favore.»
Murata lo accontentò: «Adesso vai.»
La portiera della Toyota si aprì. Ne uscì una Converse All-Star borchiata di spuntoni. Prima che la seconda potesse seguirla, Awano schioccò la lingua: «Non dimentichi qualcosa, cowboy?»
Il telaio compatto di una Beretta 92F rimbalzò sui sedili vuoti.
«Anche la spada. Sappiamo tutti quello che succede quando ti metti a giocare al samurai.»
La katana venne adagiata di traverso sugli stessi sedili, avvolta nella fettuccia sageo con estrema cura.
«Le palle posso tenermele?» domandò il gaijin.
Il detective sogghignò: «Hai quindici minuti.»
«Me ne bastano tre e mezzo.»
«È una stima parecchio ottimistica, Billy-kun. Posso sapere da dove arriva?»
La famelica bocca di un walkman Sony TPS-L2 inghiottì il nastro contrassegnato a pennarello con la sigla: NIK’S AWESOME MIX. Poi l’affilata unghia perlacea del suo proprietario, chiazzata di smalto nero, premette il tasto PLAY, e dalle cuffie imbottite presero a rimbombare le note di un pianoforte, accompagnate da una profonda voce maschile.
Era Freddie Mercury. Don’t Stop Me Now. E durava esattamente tre minuti e trenta secondi.

***

Il Mirage: uno degli hostess club più esclusivi di Kyoto.
Prima di quel mattino del 12 aprile 1987, un mattino uggioso che sapeva ancora di notte, al riparo dai raggi del sole per almeno un’altra ora, Awano Murata non ci aveva mai messo piede. Sarebbe stato strano per un umile detective della polizia frequentare un locale così costoso, più adatto a politici e star televisive, specialmente quando amministrato dal bōryokudan.
Famiglia Makimura. Yakuza.
Il Dipartimento aveva sempre chiuso un occhio, e aperto una tasca, sulle attività illegali del club. Del resto era frequentato da troppe personalità importanti, nomi che sarebbe stato controproducente gettare nel fango per un po’ di crack o una sniffata di coca.
Stavolta però era diverso. I Makimura avevano fatto il proverbiale passo più lungo della gamba, e lo squalo in cima alla catena alimentare non avrebbe lasciato correre. Nel migliore dei casi, all’alba, ci sarebbero stati un mucchio di ricoveri al pronto soccorso per amputazione del mignolo.
Nel peggiore…
I quindici minuti a disposizione del gaijin erano appena scaduti quando Murata spinse le ante pomellate del Mirage. Il lusso del locale lo investì schiacciandolo tra i marmi venati d’oro, soffocandolo col profumo delle felci e delle magnolie.
All’ingresso giacevano le prime vittime, accasciate scompostamente al suolo nei loro costosi completi; le semiautomatiche riposte nelle fondine.
Gangster: Billy non li aveva uccisi, ma ci era andato parecchio vicino.
La scia di corpi incoscienti si allungava attraverso i cordoni rossi di sicurezza, srotolandosi fino al cuore del club. L’immensa sala dal soffitto a specchio ospitava un centinaio di postazioni VIP, pregiate poltroncine di pelle e bassi tavolinetti di cristallo intervallati a futuristici separé fluorescenti. Dai cocktail bar, quattro in tutto, alla pista da ballo rialzata, stile disco music, si stendeva una folla di wakashū riversa in pose talmente innaturali da far dubitare che gli arti umani possedessero davvero delle ossa a sostenerli.
Braccia e gambe erano ritorte in maniera raccapricciante, e l’incarnato di quegli uomini, già macchiato di lividi violacei ed ecchimosi gialle, assumeva un colorito ancora più rivoltante sotto la luce bluastra dei faretti a diffusione. E questo ben prima che Awano si rendesse conto dei colli spezzati.
Cadaveri. Fottuti cadaveri del cazzo.
La furia non aveva nemmeno cominciato a montare nei nervi del detective che si esaurì all’istante.
Cercò, il poliziotto, di osservare la scena da una prospettiva più ampia. Di vagare con lo sguardo da una gola sgozzata all’altra. Contò, ma dopo la ventina smise.
«Troppi. Ce n’erano troppi.» mandò un verso d’insoddisfazione: «E quelli là? Chi sono? Cinesi della Triade?» s’incupì: «Pare che il mio informatore volesse fottermi, eh Billy-kun?!» tirò col naso: «Hai fatto bene a ucciderli. La nostra storia non avrebbe retto. Non con tutti questi stronzi in giro.» si complimentò: «Ti meriti un bonus. E anche io me lo merito. Che ne dici?»
Billy non disse niente. Se ne rimase seduto al suo posto, circondato dai cadaveri dei sicari della famiglia Makimura, col mullet biondo platino umido di goccioline rosse.
Sniffava strisce di cocaina da una banconota arrotolata da diecimila yen, sfregandosi la polvere bianca sulle gengive, succhiandosi le dita unte di sangue caldo fino alle nocche.
Psicopatico del cazzo! Talmente strafatto che le cuffie del walkman gli erano scivolate sul collo senza che se ne accorgesse: «I don't want to stop at all…» mormorava con la testa reclinata sui cuscini, ipnotizzato dal caleidoscopio di una sfera stroboscopica.
La fissava da dietro un paio di occhiali da sole Ray-Ban come se al mondo non esistesse altro.
Non per la prima volta, Awano Murata pensò che quella specie di punk scoppiato ricoperto di orecchini, pendenti e bracciali fosse un autentico killer.
Qualcosa di letale si annidava nel gaijin, camuffandosi tra i jeans sdruciti e la canotta hawaiana sformata. Il giubbotto di pelle, ricoperto di toppe, cerniere e spillette riusciva a malapena a contenerla; i muscoli eccessivamente asciutti, in costante tensione, pronti a strapparsi, a lacerarsi sotto la spinta della bestia che premeva per emergere in superficie.
Persino disarmato, con la fondina ascellare vuota, Billy era capace di rizzarti i peli delle braccia.
«Ma sì, rilassati pure.» sbuffò aspramente il detective: «Hai già fatto abbastanza, no?»
I successivi trenta minuti Murata li trascorse ad allestire la scena del crimine. Si occupò di armare gli yakuza Makimura, sparò qualche proiettile per aria e poi passò ai poveri stronzi della Triade, a cui era toccata la sorte peggiore. Fortunatamente i cinesi nascondevano sempre una lama a portata di mano: ciò avrebbe reso la storia più coerente, sicuramente confermata dalla compiacenza del medico legale.
Una cara vecchia compravendita di droga finita male, i cattivi morti ammazzati a vicenda e una montagna di soldi sporchi per il Dipartimento.
Vincevano tutti.
Restava solo da stabilire la spartizione del bottino.
Alla fine Awano si diresse al tavolo di Billy. A occhio e croce c’erano sopra almeno ottanta milioni di yen in contanti, assieme a una dozzina di panetti di cocaina purissima.
«Porta questi a Sagawa-san . Con i miei omaggi.» il poliziotto allungò una decina di milioni al gaijin, buttandogli le mazzette in grembo: «E riferiscigli che passerò di persona non appena mi sarà possibile.»
«Un bottino un po’ magro per il boss.» ponderò il gaijin: «Sei sicuro di volerti tenere tutta quella grana?»
«Non dire stronzate! Quei soldi finiranno dritti in prima pagina, non nelle mie tasche. È così che si fa carriera! Col prestigio. Hai presente? Quello è vero potere!» esclamò Murata: «Adesso alza i tacchi e levati dai coglioni. Ho già chiamato i rinforzi. Tra poco questo cesso brulicherà dei miei colleghi.»
Billy non se lo fece ripetere. Si alzò in piedi perfettamente padrone dei propri sensi, stiracchiandosi come un randagio. Con tutta la neve che si era sniffato sarebbe dovuto crepare per overdose già da un pezzo. Invece era fresco e pimpante, addirittura più di prima.
Mentre si lasciava alle spalle la pista da ballo del Mirage, il detective gli urlò da lontano: «Quanti ce ne sono? Trentacinque?» ammiccò ai corpi spezzati e dilaniati: «E quanti ne hai fatti fuori da quando hai messo piede a Kyoto, dieci mesi fa?» gli domandò, divertito per un qualche motivo: «Guardati, nemmeno un graffio.» provò una punta di ammirazione: «Ehi, Billy-kun, mi riveli il tuo segreto?»
Il gaijin si voltò, spinse i Ray-Ban sulla punta del naso e con quei suoi impressionanti occhi azzurri, quasi iridescenti, sogghignò: «Sono un vampiro.»

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