Estratti  dal  romanzo “Latinoaustraliana” di Marco Zangari. Foto a cura dell’autore. Vedi anche la Prima Parte!

  • La lingua bianca della Whitehaven Beach era semplicemente un valido motivo per imbarcarsi in un costoso volo di ventidue ore e attraversare mezzo mondo. Era tutto quello che ti poteva venire in mente quando pensavi alla tua vita così come dovrebbe essere, lontano dal freddo dallo smog dalla confusione, dai problemi, dai pensieri, da tutto.

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  • Intorno c’era un buio perfetto, di quelli che pensavi che nessuna alba sarebbe mai riuscita a scalfire. Invece, una volta fuori Alice Springs, il nero cominciò a dilatarsi, a macchiarsi di blu, a sbiadire nei suoi contorni. Era un processo naturale eppure preciso, come se questa fosse l’alba originale, e tutte le altre solo una copia di poco prezzo.

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  • (Deserto) L’azzurro chiaro e vivace del cielo lasciò posto al rosso. Lungo la linea dell’orizzonte c’era una lunga striscia di blu scuro, quasi violetto, che circondava strada e terra e sembrava il respiro stesso del suolo. Per un po’ il blu fu così forte da coprire ogni colore, creando un’atmosfera lunare. Il sole ci stava tramontando alle spalle. Alla fine il blu esplose e il crepuscolo fu dappertutto.

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  • Ci trovammo in una gola circondata da montagne e picchi rossi. Gli spazi erano immensi. Perdevi il senso della proporzione, e poi anche quello della distanza. Capivo quelli che vedevano il deserto come luogo mistico. Lì nel deserto eri solo un puntino, una cacca di mosca, e anzi persino le mosche sembravano più attrezzate di te a sopravviverci. Eri nel posto sbagliato. L’evoluzione ti era servita a poco. Santoni e pazzi sopravvivevano da queste parti, e spesso si confondevano gli uni negli altri. Nel deserto pensavi a tutto e a niente. In quegli spazi vasti il tuo respiro diventava consapevole di se stesso, così come tu lo diventavi di quell’immensa massa blu che ti pendeva sopra la testa. Eri meno di uno zero perso nell’infinito. Il silenzio ti riempiva le orecchie come mai aveva fatto nessun suono. Sentii subito uno strano feeling col deserto. Come un buco nello stomaco, orrendo e piacevole. Capivo quello che dicevano gli aborigeni: il deserto era la culla e anche il luogo di passaggio. Te lo portavi sempre con te, ovunque, anche nella città più affollata. Diventava parte di te, così come una parte di te avrebbe per sempre continuato a vagare nel deserto.

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  • Una striscia di giallo apparve all’orizzonte. Il sole cominciò a sorgere alle spalle di Uluru. Al giallo si aggiunse l’arancione, che sfumava in un celeste chiaro. Uluru era ancora una sagoma nera in questa geometrica confusione di colori. Era qualcosa che ti faceva venir spontaneo non parlare, pensare in punta di piedi, non disturbare. Magico e religioso insieme. Poi l’alba arrivò. Il celeste si insinuò dappertutto e Uluru tornò alla nostra vista, pallido all’inizio, quasi livido, con riflessi bluastri e cavità come occhiaie. Il sole fece la sua comparsa sulla linea dell’orizzonte. Uluru scomparì nuovamente per minuti lunghi secoli, e infine fu mattina.

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  • Non ebbi mai la sensazione di stare semplicemente aggirando un masso gigante. Uluru era così maestoso, così potente da farti sentire come in certe chiese di Roma, come se fosse stato l’uomo nei suoi momenti più ispirati a creare una cosa del genere. Solo che questo non l’aveva fatto l’uomo, ed era anche meglio.

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