Torniamo a parlare di come scrivere (bene) un romanzo: abbiamo già parlato dell’arco di trasformazione dei personaggi, mentre oggi vi dirò la mia a proposito di un’altra questione “scottante”, la lunghezza. Nella mia delirante carriera da editor, o avuto a che fare con romanzi eccessivamente lunghi, che necessitavano quindi di una sforbiciata rubasta, e altri fin troppo stringati, che avevano bisogno di un po’ più si respiro, e lì sì che bisognava allungare il brodo.
“Ah, e quindi qual è la lunghezza ideale?” potreste chiedervi. O chiedermi. Beh, dopo essermi trattenuto con fatica da sciorinare battute da scuole medie, vi dirò che non esiste un numerino magico, e neanche un “range” in cui rientrare. Ve lo immaginate “L’amico ritrovato” di Ulhman lungo trecento pagine? O, per motivi opposti, “Il signore degli anelli” della stessa lunghezza? Ecco: come un single che torna a casa solo per dormire avrà necessità di spazi ben diversi da una famiglia di sei persone, ogni romanzo ha bisogno del giusto numero di pagine; non è solo una questione di pura “vastità” della trama, ma anche di ritmo, e tutti i lettori sanno che quello di un thriller non è quello di un romanzo storico. A dirla tutta, può essere molto divergente anche tra un thriller e un altro thriller. Insomma, a ognuno il suo.
Dei “tagli” parlerò magari in un’altra occasione, ora voglio quindi concentrarmi sul “problema” opposto: quando il romanzo è troppo “magro” e serve allungare il brodo, è fin troppo facile esagerare, finendo per rovinare il piatto. Voglio quindi trarre spunto da chi l’arte dell’allungamento del brodo l’ha perfezionata particolarmente: i giapponesi, e in particolare da alcuni anime e manga (sì, nerd alert! Ma chi ci segue da un po’ ci sarà abituato).
Potreste aver già sentito parlare di “filler”, alla lettera “riempitivo”, che generalmente hanno accezione negativa: sono gli episodi (o interi archi narrativi composti da molteplici episodi) di serie animate che non traggono diretta ispirazione dalla fonte originale, cioè i manga. Sì, alcuni sono piuttosto noiosi, se non imbarazzanti. Ma in alcuni casi, questi riempitivi possono non solo rivelarsi interessanti o esilaranti, ma offrire una nuova prospettiva sui personaggi, che sarebbe stato impossibile avere restando nel seminato. Vi faccio un esempio che probabilmente già conoscerete…
La puntata di Dragon Ball dove Chichi costringe Goku e Piccol… ehm, Junior, a frequentare una scuola guida, è per me un ottimo esempio. Inedita rispetto al manga, assolutatamente inutile a fin di trama, e anche piuttosto insensata… insomma, Goku sa teletrasportarsi istantaneamente su altri pianeti, che diavolo se ne deve fare della patente?
Eppure, è proprio la sua eccentricità, il suo non voler in nessun modo nascondere la sua inutilità nella progressione della storia, enfatizzandola anzi fino all’assurdo, a renderla una puntata memorabile.
Ora, da bravo secchione, vi faccio un esempio che probabilmente non conoscerete… premessa: è tratto da “Kaiji”, manga di Nobuyuki Fukumoto da cui è tratto l’omonimo anime, che consiste quasi esclusivamente in… gioco d’azzardo. Sembra noioso, eh? E invece non lo è affatto, grazie anche a una sapiente gestione del ritmo: i momenti clou delle giocate sono spesso enfatizzati da “metafore” che esulano dal contesto ludico, come quella che segue.
Ehm, è l’unico esempio che sono riuscito a trovare su Youtube, dato che non esiste nemmeno un doppiaggio in inglese. Comunque, Kaiji è pieno di “rappresentazioni” come questa, che allungano il brodo fornendo al lettore nuove chiavi di lettura, e ampliando il contesto, che altrimenti sarebbe ristretto a loschi casinò e sale giochi.
L’ultimo esempio lo traggo sempre da Kaiji (sì, ci sono abbastanza fissato… ah, lo sapete che è stato materiale di ispirazione per il ben più noto Squid Game?), ma stavolta dal manga. Non voglio spoilerarvi troppo (ma potrei pur farlo, tanto so che non lo leggerete mai!), diciamo che il nostro eroe Kaiji si trova insieme a due altri sfigati come lui con un patrimonio di 2,4 miliardi di yen, che però un’organizzazione criminale rivendica come suoi. Kaiji abbandona quindi per un po’ la ludopatia per darsi alla chetichella. Tutto ciò, tra un avvistamento e una fuga rocambolesca, va avanti per oltre 150 capitoli da 20 pagine l’una; siamo arrivati al punto che l’autore si sta palesemente divertendo a prendersi beffe delle aspettative del lettore, ma al contempo lo mantiene sulle spine il necessario per non fargli abbandonare la lettura, e al contempo intrattenendolo con scene che difficilmente avremmo potuto aspettarci da una serie incentrata sul gioco d’azzardo.
Come quando Kaiji, che deve evitare che due tizi che li ospitano ficchino il naso nelle sue borse sportive piene zeppe di contante, riesce a giustificarsi lasciandoli aprire una di esse, e facendo trovare all’interno… un mucchio di riviste osé.
Uno dei beffati però, mal interpretando alcune delle copertine di queste ridenti pubblicazioni, si fa l’idea che in realtà Kaiji provi attrazione per… creature “poco convenzionali”. E posso immaginarmi Fukumoto piegato dal ridere mentre disegna robe come questa:
Considerando che Kaiji rischia più volte la vita, e la serie raggiunge vette di tensione drammatica davvero alta, questo è un esempio un po’ estremo di “filler” che sembra non c’entrare nulla, ma riesce comunque a tenere in bilico il lettore: non è che sarà proprio questa cazzata ad attirare le attenzioni della polizia o, peggio, degli yakuza verso il frainteso Kaiji? Questo però non c’entra nulla con l’articolo; va bene che parliamo di riempitivi, ma c’è un limite a tutto…
Rientrando in tem; non ho parlato (volutamente) libri, ma personaggi come Tom Bombadil sono nel cuore di tutti gli appassionati di fantasy… eppure assolutamente superflui per la trama! Giusto per restare in tema “nerdate giappo”, mi verrebbe anche da citare Vincent di Final Fantasy VII: il gioco può essere tranquillamente terminato senza aver sentito parlare di lui, ma farlo vuol dire perdersi una delle parti più memorabili, e uno dei personaggi più affascinanti. E, insomma, devo fermarmi, o il brodo di questo articolo sarà davvero troppo allungato.
Bene, cosa abbiamo imparato oggi? Che l’arte di allungare il brodo non è alla portata di tutti, ed è veramente facile prenderci troppo la mano (questo stesso articolo lo dimostra…), ma se perfezionata e gestita bene, può regalare grandi soddisfazioni. Alcuni scrittori preferiranno lavorare “a pennellate larghe” prima, per poi pensare a tagliare il superfluo in fase di revisione. Altri, invece, cercheranno di partire il più possibile “sul pezzo”, per poi concedersi in seguito qualche deviazione dalla strada maestra. Io credo che non esista una soluzione migliore, come non esiste una percentuale “giusta” di filler; tutto va a discrezione dell’autore. E sì, scrivere libri è un bel casino. Ma se lo scoprite solo adesso, vuol dire che ne avete ancora di pane duro da masticare…
Come al solito, il mio capo (me stesso, ma la parte più severa) mi costringe a ricordarvi che, se avete scritto un romanzo dove credete sia necessario allungare il brodo (o, al contrario, che vi siate lasciati sfuggire la mano, e sia necessario qualche filtro), beh, l’editing implica proprio queste robe qui, e guardacaso io mi occupo proprio di editing, quando non scrivo articoli ridanciani. Qui trovate più info sui nostri servizi editoriali. Ok, fatto!
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