Nell’ambito della letteratura italiana contemporanea, è facile notare una dicotomia, benchè raramente esplicitata, tra un certo tipo di romanzi “leggeri”, dove l’ambientazione e le tematiche più o meno originali spesso sono meno importanti di una storia coinvolgente e di facile lettura, magari con personaggi in cui il lettore può facilmente ritrovarsi, che si trovano contrapposti ad altri dichiaratamente “impegnati”, in cui la trama spesso diventa un pretesto per parlare di un’epoca storica, di un luogo o di tematiche di un certo peso.
Ecco, “La leggerezza dell’anima” di Francesco Cacciola rompe questa visione secondo me troppo schematica del romanzo contemporaneo, ricordandoci che si può raccontare una storia coinvolgente e per vari aspetti “quotidiana” e al contempo riflettere su tematiche non certo banali.
Questa particolarità è evidente già dalle prime pagine: se nella prefazione l’autore rimanda già direttamente a concetti che azzarderei a definire “esistenzialisti” come l’anima e la memoria, il primo capitolo mostra invece una situazione ben più ancorata al vissuto di tutti noi: una lettera attraverso cui Marianna dà l’addio all’io narrante. In realtà, il collegamento tra riflessione e narrazione è diretto e quasi esplicito: se nella prefazione Cacciola spiega che nelle parole e nei pensieri possono sopravvivere legami e sentimenti che nella quotidianità si sono invece interrotti, questo concetto (insieme ad altre riflessioni relative ai ricordi, al tempo e alla vita stessa) è “romanzato” con efficacia all’interno di una storia in cui il lettore può facilmente immedesimarsi, rendendo così l’inquadramento teorico ben più significativo e “concreto”.
Detto ciò, la trama di “La leggerezza dell’anima” non si sviluppa secondo i canoni tradizionali del romanzo di formazione, ma segue un approccio più sperimentale e ardito: la struttura narrativa è infatti discontinua, alternando la descrizione del viaggio non solo spirituale dell’io narrante come reazione alla fine di un amore particolarmente significativo, alle riflessioni in forma di dialogo con un analista, uno stratagemma per rendere più discorsivo e fruibile il retroterra “filosofico” del romanzo, ai “flashback” che ripercorrono la relazione tra il protagonista Pier e Marianna dalle sue origini, che servono al duplice scopo di catturare l’attenzione del lettore raccontanto situazioni comuni e dialoghi plausibili, pur senza scadere nella banalità, e di dare dimostrazione concreta dei temi già accennati nel prologo e sviluppati nel corso del testo, come la pervasività dei ricordi e il potere quasi “alchemico” delle parole.
“La vita può esere nulla, ciò che conta siamo noi e la nostra capacità di lasciare segni indelebili della nostra presenza in questo mondo”.
È quindi evidente che il romanzo di Francesco Cacciola può risultare particolarmente significativo per chi a sua volta scrive, per diletto, passione o professione, perché sia la parte più teorica che quella più prosaica danno evidenza al grande potere della parola. E l’autore, proprio grazie alla struttura originale del testo e a una coerenza interna che dimostra quanto il messaggio che vuole dare il testo sia particolarmente sentito, riesce a trasmettere concetti molto forti senza uno stile particolarmente ricercato o una trama volutamente complessa, ma valorizzando appunto il potente valore emotivo e catartico delle parole.
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