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Hood River, Oregon, 4 aprile 1882
Jasper Stevenson afferrò la pistola e infilò la canna in bocca, inclinata appena verso l’alto. Aveva tutta l’intenzione di spappolarsi il cervello.
Nella sua mente si formò l’immagine della parete alle sue spalle, di come sarebbe stata una volta che avesse premuto il grilletto: spennellata di sangue e materia cerebrale. Prima di essere un pistolero Jasper era un pittore, e quale modo migliore di andarsene da questo mondo se non nell’esplosione violenta di un’ultima opera?
Teneva il dito sul grilletto e gli occhi chiusi. Si ripeteva che era solo questione di un attimo, e avrebbe trovato quella pace di cui aveva un così disperato bisogno, ma che temeva non aver diritto a invocare. Quell’attimo però trascorreva, e poi ne trascorreva un altro, e un altro ancora, senza che Jasper, sicuro di meritare la morte, riuscisse a trovare il coraggio di procurarsela.
Riaprì gli occhi e posò la Colt sul tavolo, accanto al giornale di quella mattina. La prima pagina annunciava, senza troppo girarci intorno: “Ucciso Jesse James il bandito”. Il giorno precedente un membro della sua banda l’aveva colpito alle spalle, e il povero bastardo era finito morto stecchito.
Jasper sospirò. Sulla lingua sentiva ancora il sapore metallico dell’arma che, almeno per quel giorno, non l’avrebbe ammazzato. Chissà, forse avrebbe dovuto anche lui trovarsi qualcuno che lo facesse fuori, visto che da solo non sembrava proprio in grado di riuscirci.
SEI ANNI DOPO
1
Le porte del saloon si spalancarono per lasciare entrare uno straniero. Il fatto non destò alcuna curiosità negli avventori, che continuarono a giocare a carte, a bere e a schiamazzare.
Lo straniero spazzolò la polvere dall’elegante soprabito nero con un gesto deciso della mano, accarezzò la tesa del cappello, nero anche quello, e si avventurò all’interno del locale. A breve distanza lo seguiva un uomo dallo sguardo torvo, dai cui fianchi pendevano una pistola e un pugnale. Un piccolo rigonfiamento, sotto la giacca, indicava che di pistola ne aveva anche un’altra. Per viaggiare così armato, o era un bandito o una guardia del corpo.
«Cerco Jasper Stevenson» domandò lo straniero a nessuno in particolare, ma stavolta attirando l’attenzione di tutti. All’udire quel nome l’uomo che gli stava di fianco sussultò, come colto di sorpresa, ma non fece commenti.
Nessuno rispose all’appello. In effetti, nessuno in tutto il locale rispose affatto, e continuò a pensare agli affari suoi.
Lo straniero riprovò: «Jasper Stevenson. Trent’anni, alto, magro. Un vero demonio con le pistole. Qualcuno lo conosce?»
«Non c’è» disse allora il barista senza nemmeno alzare gli occhi su quell’uomo, continuando ad asciugare i boccali per la birra con uno straccio. Non era la prima volta che qualcuno entrava nel locale per chiedere di Jasper, in cerca di una sfida con il miglior pistolero che il West avesse mai conosciuto. Se non fosse che Jasper aveva appeso le pistole al chiodo poco prima di compiere ventisette anni. Ancora all’apice della sua carriera, si era ritirato dalle scene imbattuto. Da un giorno all’altro aveva mollato tutto, era montato a cavallo, e aveva cavalcato per mesi verso nord-est. Alla fine si era fermato a Hood River, Oregon, una piccola cittadina sulle sponde del fiume Columbia. Non tutti i potenziali sfidanti, però, avevano accettato la cosa di buon grado, perché si erano visti privati dell’occasione di batterlo e di soffiargli il titolo (o, se non altro, di provarci). Così capitava che, anche a distanza di anni, qualcuno lo rintracciasse fino in quello sperduto angolo di mondo.
«Alla buon’ora. Quando si farà vivo, gli dica che Robert Barnett ha estremo bisogno di parlargli. È una questione della massima urgenza.»
«Stevenson non spara più, lo sanno tutti» rispose il barista.
Barnett si tolse il cappello, come a voler apparire meno ostile, senza però usare la stessa cortesia nel suo tono di voce.
«Non sono venuto qui per sfidarlo, e non ho fatto tutta questa strada per sentirmi rispondere picche.»
«Questo è un problema suo. Stevenson non c’è, e comunque non ha interesse a vedere chicchessia.»
«Perché non cerchiamo di venirci incontro?» disse Barnett, mentre la mano affondava nella tasca interna della giacca. «Dopotutto, si tratta soltanto di lasciare un messaggio.»
«Si guardi intorno: questo è un saloon. Se vuole lasciare un messaggio, l’ufficio postale è in fondo alla strada.»
Dalla sala si levarono degli sghignazzi.
Barnett strinse il pugno. «Credo che siamo partiti con il piede sbagliato» disse. Aprì un borsellino rigonfio con calcolata lentezza, cosa che in genere non falliva mai di procurare una certa acquolina in bocca ai suoi interlocutori, ma il barista continuò a trafficare con i bicchieri, per nulla incuriosito da quella pantomima.
Barnett estrasse una banconota da dieci dollari e la poggiò sul bancone.
«Ora,» riprese Barnett «mi rendo conto di essere stato un po’ brusco. Sa, è stato un viaggio lungo, arrivare fin qui dall’Oklahoma.»
«Stevenson non vorrà vederla nemmeno se venisse dalla luna» fece un vecchio dal fondo del locale. Altri sghignazzi.
Barnett si strinse la radice del naso tra le dita e prese un respiro. Non era tipo da accettare un “no” come risposta. Non lo aveva mai fatto in sessant’anni di vita, e non intendeva certo cominciare ora. La mancanza di collaborazione delle persone nel saloon, tuttavia, lo lasciava perplesso, specie dopo avergli sventolato i soldi davanti al naso.Il denaro gli aveva sempre aperto tutte le porte, sia tra i politici sia tra la gente comune; in quest’angolo dell’Oregon, tuttavia, per la prima volta la sua ricchezza non sembrava più attraente di un tozzo di pane secco. Quando aveva deciso di chiedere l’aiuto di Jasper Stevenson, per sistemare una faccenda che gli stava molto a cuore, non immaginava certo che parlarci sarebbe stato difficile quanto farsi ricevere dal Presidente.
«Non è mia intenzione recare disturbo» disse, nel tentativo di apparire conciliante. «Come dicevo, si tratta solo di lasciare un messaggio. Se poi non vorrà incontrarmi pazienza, ma non potete farmi una colpa per averci provato.»
«Se vuole il mio parere, sta perdendo tempo» puntualizzò il barista.
«Apprezzo la sua premura, ma se permette sono ancora io a decidere come impiegare il mio tempo.»
Fece scorrere la banconota lungo il bancone. «Riferire un messaggio, non chiedo altro» disse. Indossò il cappello e iniziò a dirigersi verso l’uscita. Non aveva intenzione di aspettare un’eventuale risposta del barista: per lui la conversazione era chiusa. Andarsene con la certezza di avere sempre l’ultima parola: se c’era una cosa che aveva imparato in tanti anni di affari, era quella. Tutti, nel saloon, avevano ascoltato le sue richieste, e anche se nessuno aveva acconsentito a farsi da messaggero, era improbabile che non giungesse voce a Stevenson in persona. Era solo questione di tempo. Portò una mano alla tesa del cappello in segno di saluto: «Signori.»
«Non mi aveva detto che la persona che cerca è Jasper Stevenson» disse l’uomo che accompagnava Barnett, una volta fuori dal saloon. Quando gli aveva annunciato che sarebbero andati fino in Oregon per chiedere l’aiuto di un tale, mai avrebbe immaginato che si trattasse di Stevenson. Non gli andava a genio l’idea di averlo intorno.
Barnett si accese un sigaro e gettò a terra il fiammifero. «C’è qualche problema, forse?»
L’uomo si guardò intorno, e quando parlò lo fece a voce molto bassa. «Stevenson e io abbiamo avuto un… problemino, qualche anno fa, giù in Oklahoma. Penso che…»
Barnett esalò un rivolo di fumo e lo guardò disperdersi nell’aria di marzo. «Non l’ho assunta per “pensare”, signor Beaufort, l’ho assunta per eseguire gli ordini.»
«Sì, signore.»
«Questo potrebbe essere l’affare più grosso di tutta la mia vita, e per nessuna ragione le cose non andranno secondo i piani.»
«Certo, signore, ma…»
«Niente “ma”. Non m’importa dei suoi trascorsi con Stevenson, può anche avergli ucciso il cane, per quel che mi riguarda, non lo so e non m’interessa. L’unica cosa che mi interessa è che lei faccia il suo lavoro, lavoro per cui la pago profumatamente, e non mandi a monte il piano. Siamo intesi?»
«Intesi, signor Barnett» rispose Beaufort. Alto, robusto e con uno sviluppato gusto per la violenza, metteva la sua abilità con le armi a disposizione di chiunque ne avesse bisogno. Da un paio d’anni era al soldo di Barnett in qualità di guardia del corpo. La paga era buona e il lavoro facile. L’unico problema era che Barnett non si sentiva mai in dovere di rendergli noti i dettagli dei suoi piani.
Beaufort, di tutta quella faccenda, conosceva soltanto il quadro generale. E non perché ne fosse stato informato di persona, ma perché lui stesso ne aveva messo inevitabilmente insieme i pezzi; una noiosissima riunione tra azionisti, investitori e consigli di amministrazione dopo l’altra, a cui partecipava nel suo ruolo di “ombra” di Barnett. Anche se la sua unica premura era quella di venir pagato, era impossibile non rendersi conto da quali traffici proveniva il suo salario. Così era venuto a conoscenza del fatto che in Europa, pochi anni prima, un tale Karl Benz aveva inventato un nuovo mezzo di trasporto mosso dalla combustione del petrolio, e ne era da poco iniziata la produzione. Barnett aveva intuito le potenzialità di quell’invenzione e la scoperta di un giacimento su un terreno abitato soltanto da sparuti gruppi di indiani, che non vedeva l’ora di sfrattare, era l’occasione perfetta: non solo avrebbe estratto e raffinato il petrolio, ma vi avrebbe anche costruito fabbriche di automobili. Mirava a instaurare un monopolio sia nel settore del trasporto sia in quello del carburante, dimezzando le spese perché tutto sarebbe avvenuto in loco. Tutto questo, però, a Beaufort non interessava nemmeno un po’, se non per il pagamento che gli avrebbe comportato. Al contrario, gli avrebbe fatto molto più piacere conoscere l’intenzione di coinvolgere, tra tutte le persone di questo mondo, proprio Jasper Stevenson.
«Animo, Beaufort!» disse Barnett, e la pacca che gli diede sul braccio lo riscosse dai suoi pensieri. «Sempre con quell’espressione malmostosa. Inutile rimuginare su quello che è stato, quando il futuro promette così tanta ricchezza. Non si preoccupi, ce ne sarà anche per lei. E lei sa che io mantengo sempre le mie promesse.»
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Marco “Frullo” Frullanti –
“I protagonisti sono credibili e ben costruiti, c’è chi cerca redenzione, chi vuole scoprire il mondo, chi segue il profumo dei dollari. Inseriti abilmente tra loro troviamo personaggi storici di cui tutti, almeno una volta, abbiamo sentito parlare.”
Recensione su “Parole Pelate”
Marco “Frullo” Frullanti –
“Mi è piaciuto davvero molto: lo stile è scorrevolissimo, la scrittura precisa e accurata, la storia – con tutte le dinamiche che si creano – è coinvolgente e narrata in modo interessante”
Recensione su “Chicchi di Pensieri”
Nicola Vasta –
Lettura scorrevole, trama ben costruita, i personaggi trovano tutti il giusto spazio. Consigliatissimo