Estratto |
Prima parte – Un demone dentro
Famiglia improvvisata
A quest’ora la periferia è tutto un brulicare di faccende losche e brutti ceffi: l’oscurità è calata da poco su Merya. È una città ombrosa, i cui edifici, spesso alti e bitorzoluti, sembrano esser stati costruiti uno a ridosso dell’altro. Le strade, strette e labirintiche, sono come gole di un grande mostro serpentesco, che rischia spesso di soffocare.
Cammino a ridosso delle pareti scrostate e sporche, cercando di non farmi notare, calandomi maggiormente il cappuccio sul volto. Indosso pantaloni scuri e un corpetto stretto sotto alla camicia larga, in modo da nascondere le mie fattezze femminili.
Mi fermo al solito angolo, in attesa, nel buio della sera.
Mi si avvicina un uomo grasso, dagli occhi piccoli. Cerca di scrutare sotto al cappuccio, con fare indagatorio.
Non è lui.
Sposto il mantello di lato, a scoprire la mia gamba tesa. L’uomo sembra incuriosito dal gesto. Solo quando nota che gli sto indicando il pugnale infilato nella mia cintura, sembra trasalire un attimo, e si volta dall’altra parte con uno scatto. In pochi secondi, si dilegua.
Una figura incerta e tremante si avvicina. Poggia le spalle incassate alla parete, lanciandomi un’occhiata timorosa.
Tossisce, tre volte.
Mi avvicino.
«Sono io» sussurro.
L’uomo si volta a guardarmi, incerto. «Seguitemi, vi prego» mi dice. La testa calva leggermente sudata, negli occhi un’espressione dolorosa.
Si fa strada in un dedalo di vie poco frequentate.
Nonostante non sospetti dell’uomo che mi precede, le mie dita non si scostano mai dall’elsa del pugnale. Lo so usare a malapena, ma è pur sempre un’arma visibile, capace di intimorire al primo sguardo. Mostrare la magia, ultimamente, può rappresentare un pericolo.
L’uomo apre la porta di legno scricchiolante di una baracca che si erge tra due palazzine malandate, mantenendola aperta finché non mi decido a entrare.
L’interno è più accogliente dell’esterno: il camino acceso irradia un calore rassicurante, e un odore di zuppa mi giunge alle narici. Nonostante ciò, un mugolio indistinto rende l’atmosfera decisamente tesa e angosciosa. L’uomo mi conduce vicino a un letto.
Un bambino dal colorito poco sano si confonde tra le lenzuola: al suo fianco una donna gli tiene la mano. Il piccolo mi guarda debolmente, incapace di fare di più. Ha i capelli scuri e umidi di sudore, gli occhi chiari arrossati, le labbra socchiuse.
«Aiutatelo, per favore» mugugna la donna.
«Quali sono i sintomi?» chiedo, abbassando il cappuccio e accovacciandomi lentamente vicino al ragazzino, per evitare di spaventarlo.
L’uomo, suo padre, mi scruta, sorpreso.
«Ha la febbre, una forte tosse, e non riusciamo a farlo mangiare. Per favore, fate qualcosa» ripete la donna, disperata.
Poggio una mano sulla fronte del bambino. Scotta.
«Ehi» dico, sorridendo appena. «Come ti chiami?». Prendo il panno bagnato dalla bacinella d’acqua, e glielo poggio sul capo per dargli sollievo.
«Marinel» risponde lui debolmente, le labbra secche.
«Piacere, Marinel. Il mio nome è Ria» dico, accarezzandogli la testa. «Qualcun altro di voi è stato male?» chiedo, voltandomi verso i genitori.
Loro si guardano reciprocamente, una nota di acuto dolore nei volti.
«Nostra figlia, è morta due settimane fa. Dello stesso male» mi informa il padre di Marinel, mentre la moglie scoppia in un pianto inconsolabile.
«E poi ci sono queste» annuncia il padre, alzando una manica della camicia del bambino. Delle macchie rossastre, simili a bruciature, gli decorano il braccino altrimenti pallido.
La febbre misteriosa. Rovisto nella mia sacca. Tiro fuori un paio di fiale, contenenti un siero che Athia, la curatrice di Nilen, mi ha insegnato a creare.
Tolgo il tappo di una delle boccette, poi mantengo la testa del bimbo per aiutarlo a buttarla giù.
«Ecco qui, Marinel, bevi questo. Ti farà sentire meglio» gli sussurro dolcemente. Lui beve, incerto, prima di sprofondare nuovamente nel cuscino. Lo guardo solo per un altro momento, prima di allontanarmi dal suo capezzale.
«Questo invece è per voi» dico ai genitori, porgendo loro un’altra ampolla di siero. «Si tratta di un antidoto. Prendetene un po’ anche voi, per evitare il contagio».
La donna annuisce, stringendosi l’ampolla al petto.
Ha i capelli stretti in una crocchia disordinata e ampie occhiaie sotto gli occhi verde spento.
Il mio pensiero va subito a mia madre, e l’apprensione s’impadronisce di me. E se lei e le mie sorelle venissero contagiate dalla malattia portata dagli adepti della Setta di Sangue?
Sbatto le ciglia, cercando di ritrovare la concentrazione e di pensare solo a ciò che sto facendo.
«Per favore, fate finta di non vedere quello che sto per fare» dico ai genitori del piccolo, che mi guardano senza capire.
Quando mi vedono porre le mani sul petto del bambino, li sento trattenere il fiato.
La magia. Significava salvezza, fino a qualche mese fa.
Poi sono iniziati i saccheggi, gli incendi inestinguibili, la paura, la febbre. La Setta di Sangue, quella di cui tutti hanno sempre negato l’esistenza, come se il Secondo Periodo Oscuro della Magia non fosse mai esistito, è tornata a far parlare di sé. Gli adepti hanno incominciato a lanciare minacce, a spargere voci sulla resurrezione del loro padrone: sul riapparire di Epto, il Dio Supremo del Fuoco, ora reincarnatosi nel figlio dell’Uomo del Fuoco.
La gente ha iniziato ad avere paura, a evitare streghe e stregoni, a isolarli e guardarli con timore e apprensione. La famiglia reale, incapace di sostenere una simile emergenza, ha interpellato le linee militari, molte delle quali sono impegnate sui confini occidentali a causa dei turbolenti movimenti dei Tirie. Se non ci si può più fidare dei maghi, come si può sperare di fronteggiare una possibile invasione?
Ora la magia significa sospetto. Quanto altro odio e morte ci vorranno per farla diventare maledizione?
Una luce leggera scaturisce dalle mie mani, espandendosi sul petto del bimbo. Dura solo un attimo. Poi mi alzo, continuando a guardare Marinel.
Mi fissa di rimando. «Mi sento meglio» sussurra.
I genitori tirano un sospiro di sollievo e sorridono. La madre abbraccia il piccolo, poi è il turno del padre di avvicinarsi a lui e scompigliargli i capelli.
«La ringrazio» sussurra la donna, stringendomi un braccio, accorata. «Mi avevano detto di non fidarmi delle streghe, che ormai non ce ne sono più di disposte ad aiutare la povera gente. Dicono che siete voi a diffondere la malattia! Non so quale sia la verità, ma sono grata che mio marito sia riuscito a rintracciarla, signorina. Che gli Dei la benedicano!».
Sorrido leggermente alla signora. Poi l’attenzione di entrambe viene attirata dalla voce del bambino.
«Mamma, ho fame!».
Lei sorride, tra le lacrime di gioia che le sono scese sul volto. «Piccolo mio, ti porto subito un po’ di zuppa!».
«Ciao, Marinel» dico, rimettendomi il cappuccio sul capo.
Mi incammino verso la porta, seguita dal padre.
«Vi sono immensamente grato, signorina Ria». Mi porge un sacchetto di monete non troppo pesante. «Questo è tutto ciò che abbiamo».
Apro il sacchetto, lo svuoto sul palmo della mano. Dieci monete d’oro.
Sento lo sguardo nervoso dell’uomo addosso, preoccupato che non sia abbastanza.
Rimetto nel sacchetto cinque monete e glielo porgo. «Mi bastano queste» dico, prima di voltarmi e sparire nel buio. Non voglio privare una famiglia di tutto il proprio oro, non in un momento simile.
Se, fino a qualche mese fa, raccogliere soldi tramite gli spettacoli era un gioco, adesso guadagnarli tramite piccoli lavoretti magici fatti di nascosto è una necessità. Due mesi fa, gli adepti della Setta che ci hanno attaccato e che sono riusciti a fuggire non ci hanno solo privato della serenità, ma hanno anche distrutto parte delle proprietà del Diamante, dei beni della mia maestra, dilapidando ogni suo tesoro.
Ora dobbiamo contare solo sulle nostre forze per sopravvivere.
Attraverso nuovamente le strade tentacolari di Merya, cercando di confondermi con l’oscurità, senza attirare l’attenzione della gente poco raccomandabile che circola in giro.
Degli uomini, torce alla mano, perlustrano le strade. Dovrebbero avere lo stesso ruolo delle guardie del Principe Didio Shalor, quasi interamente impegnate sul confine Tirie: proteggere la città. Ma ciò che fanno realmente è fermare le persone che sembrano loro sospette e interrogarle finché non trovano qualcosa che non va loro a genio, e il tutto spesso finisce in una rissa o, alla peggio, in un pestaggio. Se decidono, poi, di avere tra le mani una strega, la portano al Tempio, di fronte alla piazza della città, e tentano di esorcizzarla con un rito del culto anti-stregoneria dei Gemelli Lio e Ilo, sotto le statue guardinghe dei Cinque Dei di Adaesha. Anche se le statue rimaste sono solo quattro: quella di Moria, la Dea della Magia, è stata vandalizzata e distrutta.
A quest’ora, la locanda è nel pieno della sua attività: ci sono uomini che brindano, fiumi di alcool e arrosti succulenti.
Nonostante abbia lavorato tutto il giorno, il mio appetito è pressoché nullo, così cerco di ignorare gli schiamazzi, il profumo del cibo e i commenti allusivi, mentre attraverso la sala affollata, salgo le scale e imbocco il corridoio degli alloggi. Apro la porta con la chiave che ho in tasca.
«Salve, Alaisa». Dory sta rinnovando gli incantesimi di protezione attorno alla locanda. È seduta sul pavimento di legno consunto, circondata dai quattro elementi: una candela accesa, della sabbia, un rametto e un recipiente d’acqua. Questi ultimi sono più importanti degli altri, visto che rappresentano i suoi elementi: l’acqua e la terra. Gli stessi di sua sorella Meredith, gli stessi di Skelribel.
«Buonasera, Dory» dico, chiudendo la porta e togliendomi il mantello. «I ragazzi non sono ancora tornati?» chiedo, e lei scuote la testa.
Si volta per riprendere il suo incantesimo, pronunciando parole in magiziano che possano darci un minimo di protezione contro gli adepti della Setta.
Non sembra che siano davvero venuti a cercarci da queste parti, o almeno, non ancora. E non possiamo creare un incantesimo che impedisca loro di entrare nella locanda. Possiamo, però, crearne uno che ci avvisi non appena un mago, o una strega, vi si avvicina. Poco preavviso, è vero, ma meglio di nulla. Per fortuna, non ci sono molti maghi in giro, di questi tempi.
Non sappiamo se Drayn abbia parlato ad altri dei suoi dubbi circa la vera identità di Skelribel, ma sappiamo che due adepti sono riusciti a scappare, la notte durante la quale tutto è andato a rotoli, e che sanno di noi. Per non contare che, in questi due mesi, non abbiamo potuto allontanarci molto dal Diamante, viste le condizioni di Skelribel e Meredith.
L’abitazione affittata alla locanda è formata solo da due stanze e, mentre io, Shyr, Dean e Ilan dormiamo in soggiorno, arrangiandoci con materassi imbottiti di paglia, la camera da letto vera e propria è abitata da Skelribel, Meredith e Dorothy.
Entro nella loro camera. È spoglia, le pareti sono formate da assi di legno e vi è appeso solo un quadro, rappresentante il mare e circondato da un’orribile cornice. Ci sono un grande e bitorzoluto letto matrimoniale, un comodino di legno grezzo e un cassettone. Skelribel è seduta sul letto, e cerca di ricamare un fazzoletto di stoffa bianco con le mani tremanti. Al suo fianco, Meredith le dà le spalle, raggomitolata su se stessa, chiusa al mondo.
«Come stai, maestra?» chiedo.
La strega dai capelli biondi alza il volto dalle sue mani, e mi rivolge un’espressione sofferente. «Vorrei poterti dire che sto meglio» sussurra, affranta. Abbassa il viso sulle sue mani, come se non le riconoscesse. «Ma tutto sembra diverso, in me».
I capelli biondi e ricci sono placidi e scompigliati sulle sue spalle, che non sono mai sembrate così magre e deboli come adesso. Indossa un vestito bianco con rifiniture color cielo, ma il suo corpo è fiacco, piegato dalla sofferenza, privo di ogni magia.
L’incantesimo che l’ha costretta a dire tutta la verità a Drayn l’ha lasciata debilitata, indebolendo i suoi poteri e le sue difese mentali. L’ha lasciata impotente.
«Andrà meglio» sussurro, impassibile. Una roccia che non si scalfisce, non malleabile.
«Grazie, Alaisa» bisbiglia lei, prima di voltarsi verso la figlia che le somiglia di più.
Meredith non ha più parlato da quel giorno. Non un lamento, né un sorriso. Nessuna espressione sul bellissimo volto. Solo spalle voltate, incurvate sotto un peso troppo grande da sopportare. Solo sofferenza silenziosa, contro la quale ci sentiamo impotenti.
La porta dell’abitazione si apre.
«Buonasera!» esclama Dean, il torso nudo e i capelli castani sudaticci, portando in spalla fiaccole e altro materiale per lo spettacolo del mangiafuoco.
Dietro di lui, ci sono Shyr e Ilan, agghindati per l’esibizione a cui hanno partecipato, nel centro di Merya.
«Com’è andata?» chiedo, senza entusiasmo.
«Tutto bene, maestra. Ecco qui cosa abbiamo raccolto» mi risponde Shyr, venendomi incontro e porgendomi un sacchetto.
Shyr e Dean sorridono, almeno loro. Sono la gioia di questa piccola compagnia di sofferenze.
La ragazza è bellissima nel suo vestito viola e nero, che la vede cantare sotto lo sguardo del suo pubblico in piazza quasi ogni giorno, mentre Ilan suona qualche strumento e Dean dà il meglio di sé con le torce infuocate. È molto bravo, ma mai quanto lo era Roran.
«Benissimo. Domani passeremo dal mercato per fare provviste. Nel frattempo, tenete qualcosa per pagarvi la cena».
«Possiamo mangiare alla locanda?» chiede Shyr, sorridente. Annuisco osservando, senza farmi notare, le pietre lilla che indossa. Per fortuna stanno reggendo bene.
«Certo» dico, porgendole delle monete.
«Vado anch’io, Alaisa. L’incantesimo mi ha sfiancato» m’informa Dory, alzandosi dal pavimento.
Skelribel asserisce di non avere appetito, mentre Mery non risponde alla proposta della sorella di andare con lei. Alla fine, Dory sospira. «Porterò qualcosa per loro» mi assicura lei, mentre esce insieme agli altri ragazzi.
«Tu non vieni?».
«Non ho appetito» dico, richiudendo la porta.
Quando il sogno di una convivenza idilliaca al Diamante è andato in frantumi, tutto è diventato confuso, sfumato.
Cosa avremmo dovuto fare? Roran era andato via, Skelribel era esanime, Mery era muta e Dory sembrava in balia di un crollo emotivo che le impediva di prendere decisioni lucide.
Dopo la battaglia, sono stata io a recuperare Shyr, Dean e Ilan, rimasti fuori città per allenarsi, per riportarli al Diamante. Ho spiegato loro la situazione, tra sguardi increduli e spaventati. Ho chiesto loro se non avessero preferito tornare dalle loro famiglie.
«Alaisa» aveva iniziato a dire Dean, con aria grave. «Nessuno di noi ha una famiglia da cui tornare».
La crudezza delle sue parole aveva rischiato di affondarmi ancor più nello sconforto. Come potevo occuparmi anche di loro?
In realtà, Shyr aveva una nonna e Ilan era un nobile, padrone di un castello e di montagne di monete d’oro, ma tutto era troppo lontano, impossibile da raggiungere.
«Non possiamo separarci» aveva concluso Ilan Lorenth, guardandomi intensamente. «Mai come adesso, Skelribel ha bisogno di una mano. E noi non ti abbandoneremo, Alaisa. Siamo gli apprendisti della strega, ma siamo anche tuoi compagni. Non saremo un peso per te, solo insieme possiamo farcela».
«Ilan, la situazione è molto complicata» avevo detto, cercando di ricacciare indietro le lacrime. «La Setta di Sangue si sta ricostituendo. Non so come, ma non è mai stata del tutto sconfitta. E ora è sulle nostre tracce. I membri della Setta vogliono Roran, vogliono Skelribel. E, dopo quello che ho fatto, staranno cercando anche me».
«Roran è andato via» aveva ribadito Dean, lanciandomi un’occhiataccia. Le sue parole erano state come uno schiaffo. Ero ancora incredula, davanti all’assenza di Roran.
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Marco Frullanti –
Alaisa non è una classica figura in gonnella in cerca dell’aiuto del ragazzino belloccio protagonista dei wattpad romance GRAZIE SABRINA, FINALMENTE LEI È UTILE A QUALCOSA E NON ASPETTA CHE SI SBROGLINO I CASINI CHE LEI STESSA COMBINA!
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Marco Frullanti –
L’Uomo del Fuoco di Sabrina Guaragno è la degna continuazione di una saga che porterà il lettore a condividere gioie e dolori dei protagonisti e che lascerà un senso di vuoto largo quanto una voragine in attesa del terzo volume.
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