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1.
Quando l’aereo partì, ero in doposbronza. Quando l’aereo atterrò alla fine in Australia, ero sbronzo di nuovo.
In mezzo, 23 ore di volo con scalo a Bangkok, dove un agente di sicurezza col turbante mi controllò il passaporto lanciando strane occhiate. Una volta libero, mi lasciai cadere sulla prima sedia e restai a guardare l’alba. Una coppia mi si venne a sedere accanto e cominciò a discutere a voce alta. Dall’accento capivo che erano australiani. Aprii gli occhi e vidi una bionda aussie col corpo che cercava di straripare dai vestiti. Il sonno mi passò subito.
Il volo da Roma l’avevo passato accanto ad una coppia italiana in luna di miele. Non parlavano una parola d’inglese, non risposero al mio saluto, e durante il film proiettato in cabina ridevano sempre al momento sbagliato. Avevo lasciato perdere e mi ero messo a leggere.
Nel secondo volo ero troppo eccitato per poter leggere. Accanto avevo un ragazzo alto con l’acne.
“How you doing, mate?”
Lo guardai.
“Good, mate!”
Accanto a lui un altro ragazzo. Era di Darwin. Quello lungo con l’acne, invece, di Brisbane. Io, che a malapena sapevo dove fosse Sydney, cominciai ad ascoltare la loro conversazione. Ne facevo parte anche senza parlare. Quando l’hostess passò, non rifiutai. Presi del vino rosso thailandese, lo assaggiai. Sapeva di medicinale. Lo buttai giù e ne ordinai un altro.
Il ragazzo lungo continuava ad ordinare scotch e soda sottobanco, bisbigliando alle hostess. Mi addormentai un po’. Al mio risveglio, aveva davanti a sé 4 bicchieri vuoti e un gran sorriso.
La parte più bella era il megaschermo con l’esatta posizione dell’aereo. Lo guardavi e pensavi che il tuo culo si trovava sopra il Medio Oriente. L’Himalaya. La Malesia.
Quando la mappa mostrò un piccolo aeroplano che sorvolava il deserto australiano, feci un cenno alla hostess.
“Jack Daniel’s on the rocks, grazie”
L’hostess sculettò nel suo kimono per prendere la mia ordinazione. Il lungo di Brisbane mi guardò e disse “Good on ya, mate!”, alitandomi una decina di scotch e soda in faccia.
L’hostess tornò col bicchiere. Lo sollevai e feci cenno ai due ragazzi australiani accanto a me di fare lo stesso.
“To Australia!” urlai.
“To Australia!” fecero loro. Lo buttammo giù e ne ordinammo un altro.
Arrivammo che era buio. Presi il mio bagaglio a mano, mi abbracciai con i due australiani promettendo amicizia eterna e proseguii. Ero emozionato e nervoso. Camminavo misurando ogni passo, come se lo facessi per la prima volta nella vita.
Mi diressi verso il banco per il controllo passaporto.
“Prima volta in Australia?” chiese la donna.
“Sì”
“Allora benvenuto” disse, e fece un gran sorriso. La guardai come se mi avesse appena chiesto di scopare. Erano le nove e mezza di sera. Nessuno sorride a nessun altro alle nove e mezza di sera. Questi australiani dovevano essere pazzi.
Ai controlli per il visto, stessa scena. La donna mi augurò un felice soggiorno.
“Spero che l’Australia non la deluda”
Io strinsi il mio passaporto e pensai, pazzi.
Tutti pazzi.
***
Passai la dogana. Avevo una paura fottuta di quei tizi lì. Ovunque, appena arrivavi all’aeroporto, c’erano cartelli che ti dicevano di stare attento a cosa stavi portando dentro il Paese. Non è che avevi cibo con te? E il legno? E che mi dici di quella terra sotto le scarpe? Sicuro che sia tutto ok?
C’erano multe pesanti per chi sgarrava, a volte persino una detenzione. Io avevo controllato il mio bagaglio decine di volte, ma lo stesso ero in apprensione. E se il lungo di Brisbane mi avesse messo del legno nel bagaglio a mano mentre ero al cesso?
Camminai un po’ per cercare un treno che mi portasse in città. Solo dopo qualche metro ricordai che mi trovavo in Australia. Mi guardai intorno. Era buio ma si scorgevano le luci della città in fondo. Era fine agosto e l’aria era fresca.
Inspirai, e ancora sentii come se lo stessi facendo per la prima volta. Poi presi le valigie bestemmiando e mi diressi verso la stazione.
Arrivai a Central Station che era molto tardi. Mi fermai al primo posto che sembrava economico e non troppo lercio, e chiesi una singola. Arrivato alla porta, la chiave non funzionava. Provai due, tre volte. Mentre ero lì che provavo, passò una brunetta. Aveva appena fatto la doccia e indossava solo un asciugamano.
“Hi” disse, con occhi blu invitanti.
“Ciao” feci io, scordandomi per un attimo dov’ero o chi ero. Senza pensarci, feci un altro tentativo. La porta si aprì. Entrai, gettai i bagagli in un angolo, mi lanciai sul letto tutto vestito.
Dieci minuti dopo mi stavo facendo la prima ronfata australiana.
2.
Mi svegliai poco dopo l’alba. Non so se fosse il fuso orario o no, so solo che pensavo, cazzo, là fuori c’è l’Australia, mica posso restarmene a dormire!
Andai a Central e m’informai su come arrivare a Manly, una delle spiagge principali. L’uomo al banco informazioni, cortesissimo, mi spiegò le varie opzioni che avevo. Non capii una sola parola. Decisi di prendere un autobus che poteva avere a che fare col lungo monologo di quell’uomo. Ora restava solo da capire come si prendesse un autobus.
Mi guardai un in giro. Ce l’avevo con me stesso. Perché, Mattia, non sei uno di quelli che si compra la guida turistica PRIMA, e magari se la legge pure?
Non era il mio genere. Non leggevo le guide (anche se qualche volta le compravo), non ricordavo le date, i nomi dei posti, niente. Avevo solo qualche vaga idea dell’Australia – o Oz, come la chiamano gli australiani nella loro mania di accorciare ogni parola.
Il mio inglese, poi, era ridicolo. Anni dopo il liceo, avevo provato ad andare ad una scuola di lingue, ma la mia prima professoressa era una nera pazza di San Francisco che aveva cercato di insegnarmi la parlata rap prima di farsi il mio coinquilino e lasciare la scuola. Quella che era venuta dopo era più giovane di me di 8 anni, e passavamo il tempo con le sue storie d’amore con uomini violenti e dal cazzo piccolo.
Tutto l’inglese che sapevo veniva da Mtv, dai film e dalle canzoni. Il tutto, ovviamente, parlato con un marcatissimo accento siciliano.
Eccomi in Australia, muto e senza mappa. Benvenuto.
Guardando gli altri, scoprii come pagare il bus. Miracolosamente, era quello giusto. C’era una strana pace a bordo. Le persone entravano ordinatamente, pagavano e andavano a sedersi. I ragazzi cedevano il posto ai vecchi. Nessuno parlava a voce alta nel telefonino. Sembrava una versione alla Walt Disney di un autobus italiano. Solo gli autisti erano un po’ scortesi, giusto per non rendere troppo netto il gap culturale.
Quando vidi una massa blu lontana, scesi e m’incamminai. Inalavo quell’aria così buona, che doveva essere invernale e invece era più che primaverile. Vidi qualcuno in muta e con in braccio un surf, e capii che non si poteva sbagliare.
Il Pacifico era proprio davanti a me. Ci guardavamo incerti, come amici che non si sono mai visti ma sono amici lo stesso. Amici che pensano che dovrebbero abbracciarsi ma sono troppo emozionati per fare qualsiasi cosa.
Avevo davanti quella distesa blu che si confondeva con il cielo e con tutti quei sogni che avevo fatto senza crederci, molti anni prima. Lasciai che l’oceano mi entrasse dentro. Guardai l’orizzonte dal quale ero venuto, e capii che ne esistevano tanti altri.
Mi venne in mente che non avevo ancora fatto colazione. Andai in un pub dall’altra parte della strada, giù lungo il Corso, e ordinai la mia prima VB. Restai a berla con un sorriso idiota in faccia.
“Coma va amico?” mi fece il barista mentre metteva a posto. Nel pub c’eravamo solo io e tre uomini anziani, mezzo addormentati sul bancone circolare in legno.
“Non potrebbe andare meglio” dissi, e buttai giù un po’ di quell’oceano in bottiglia.
Quando uscii dal pub, sopra di me si aprì quel cielo blu d’Australia di cui si sente sempre parlare. Ma dire blu non basta perché è un colore tutto suo, vivo, brillante, piacevole, senza sbavature. Sembra finto, come una scenografia pensata da qualche Dio di buonumore e poi dimenticata qui in una domenica eterna. Come quei giorni di sole della tua infanzia, dove i colori sono lucenti e riempiono ogni cosa.
A Manly c’erano tanti ristoranti all’aperto, la maggior parte dei quali italiani. Le case erano basse, coloniali, strane immagini da saloon nel deserto. Perfino quando attraversavo la strada dovevo dimenticarmi di tutto quello che sapevo, se non volevo finire sotto qualche macchina. La guida a sinistra ti disorienta anche come pedone. Ovunque accenti fortissimi e questa parola, mate, che fa sentire subito a casa.
Tornai in città, affamato. Mi fermai in uno dei tanti posti takeaway su George Street per farmi un panino. I posti per mangiare non mancavano. Era un martellare continuo, un’esplosione di succhi gastrici. I ristoranti italiani e thailandesi erano ovunque, ma anche per gli altri non ci si poteva lamentare. Tutto il mondo ti andava giù per l’esofago, Vietnam Spagna Germania Cina Giappone Svezia Francia Indonesia Indocina Portogallo Grecia, ce n’era davvero per tutti.
All’ostello decisi di spostarmi verso una stanza a quattro. Dovevo risparmiare finchè non trovavo un lavoro. Nella stanza c’erano due letti a castello. In quello a destra erano sdraiati due coreani. Dissi “Hi” e mi risposero appena. Nell’altro, il letto sopra era pieno di roba –magliette, asciugamani, rasoi, cappelli, cd, uno spazzolino, riviste, una pantalone del pigiama, mutande sporche. Presi il letto sotto. Ero così stanco che mi addormentai vestito ancora una volta, e ancora una volta mi svegliai prestissimo. Stavolta, più che l’eccitazione, era stato il russare dell’uomo sul letto sopra al mio. Sembrava il motore ingolfato di un camion. Sembrava un orso che viene inculato. Anch’io russavo, lo so, ma al mio russare c’ero abituato.
A Circular Quay tirava un vento incredibile. Una scuola stava facendo un picnic sul prato, accanto al museo d’arte moderna. Tutti i bambini indossavano ridicoli cappelli con la veletta.
Il Quay è una passeggiata che si appoggia pigra sull’acqua della baia di Sydney e lecca le gambe della città. Sulla sinistra c’è il ponte, a destra l’Opera House. Lo skyline coi grattacieli che riflettono il cielo blu elettrico non sembra nemmeno così orribile. Passai accanto a un uomo anziano con una camicia bianca molto larga che diceva alla moglie: “Guarda, è proprio come nelle foto!”. Mi trovai un punto tutto mio.
Il ponte è il mio preferito. Non è niente di particolare, in fondo. Un ponte del cazzo.
Però è bellissimo.
Lo guardai a lungo sentendomi, per la prima volta, DAVVERO in Australia. Per me l’Harbour era come i canguri, i koala e Crocodile Dundee per tutti gli altri: qualcosa che c’è solo qui.
Camminai piano verso l’Opera House. Andavo a testa bassa tra i turisti, leggendo le lapidi lungo il Writer’s Walk, con frasi di scrittori famosi sull’Australia. Il sole andava e veniva, mentre alcuni pazzi si facevano un giro nel motoscafo jet a 110 km/h che li lasciava bagnati e goduti.
L’Opera House mi sembrò subito la costruzione giusta nella città giusta. Stravagante, fresca, naturalmente bella. Appariva come un’enorme nave pronta a salpare. Il suo colore cambia a seconda del sole, e di notte rilascia la luce danzando come un fantasma nelle acque nere della baia. Da vicino le piastrelle la fanno somigliare ad una gigantesca tartaruga.
Per coronare la mattina decisi di gustarmi una birra nel bar sotto l’Opera House. Andai per una Carlton Draught. Mi sedetti ad un tavolo con quella vista niente male. Davanti il ponte, dietro l’Opera. Li valeva tutti, quei 7 dollari. Peccato che la scorta stava finendo.
Feci un salto all’internet cafè vicino all’ostello, giù a George Street. Lessi un paio di email, risposi. L’Italia sembrava già lontanissima.
Su Gumtree, un sito specializzato in lavori per backpackers (viaggiatori a poco prezzo come me) trovai un annuncio interessante. Cercavano italiani madrelingua, nessuna esperienza, nessun requisito. Pensai che ci rientravo.
Scrissi un curriculum in fretta, inventai un paio di cosette, ci misi delle finte referenze e spedii il tutto.
Quella sera feci un giro su George Street. Ancora non mi ero abituato ai negozi che chiudevano alle 5 del pomeriggio. Pensavo, se la gente esce dagli uffici alle 5, che cazzo di senso ha?
I pub però restavano aperti oltre le cinque, così nessuno si lamentava troppo.
Passeggiai per le strade, assaporando il fatto di essere straniero e non conoscere nessuno. È elettrizzante come sensazione, se la sai prendere. Ti può schiacciare come niente, specie la sera, ma in generale c’è dentro tutto quello che può farti sentire vivo. Ricominciare da zero. Esiste niente di meglio?
Camminavo senza fretta, senza appuntamenti, senza scadenze. Non avevo un piano, né per quel giorno, né per quelli a venire. Osservavo i gruppi di giapponesi davanti alle arcades, i vecchi che uscivano a zig zag dai pub a buon mercato. Le ragazze erano di una bellezza assassina. Camminavano leggere, senza nessuna aria da principesse. Anche se faceva freddo, indossavano vestiti cortissimi con cosce sempre in evidenza, cosce sane, fresche, cosce che ridevano da sole e che facevano ridere anche te. Cosce che non ti facevano sentire solo nemmeno quando eri nuovo in città. Ogni tanto le guardavo e loro rispondevano al mio sorriso.
Quel sorriso faceva miracoli.
***
La mattina dopo andai all’internet cafè e scoprii che quelli dell’annuncio mi avevano risposto. Avevo un colloquio con loro per le 11. Adesso erano le 9 e non facevo una doccia da giorni. Corsi all’ostello, mi lavai, mi vestii ed ero fuori. Dovevo andare a Chatswood. Non avevo idea di dove fosse Chatswood o qualsiasi altro posto.
Chiesi al solito uomo del banco informazioni a Central, e di nuovo non capii niente. Poi mi accorsi che Chatswood era una delle fermate del treno, così comprai il biglietto e montai.
A Chatswood corsi fino all’indirizzo che mi avevano dato e scoprii che era un lussuoso grattacielo. Controllai l’indirizzo più volte. Sì, era quello. Ma che voleva dire? Forse dovevo ammazzare qualcuno. Diventare killer a pagamento.
Camminai per i corridoi finché non trovai la porta della Klint, la società che mi aveva contattato. Una ricciolona un po’ invecchiata venne ad aprire e mi fece accomodare.
“Chi sta cercando?” chiese.
“Sono qui per vedere Monica Santelli”
“Oh, Monica, certo! Aspetta che te la chiamo”
Restai lì a guardarmi intorno. Vetrate enormi davano sulla città.
“Mattia Pascà?” disse qualcuno.
“Sì”
“Ciao, sono Monica. Tutto bene?”
“Sì grazie”
“Vieni con me”
La seguii lungo i cubicoli.
“Ho paura che siamo al completo” disse. “Ma se qualcuno decide di rinunciare, magari ti chiamiamo. Una volta che passi il test, ti mettiamo nel nostro database”
“Di che si tratta?”
“Il test è semplicissimo. La Klint produce software linguistico. Sai quando chiami per prenotare un taxi qui, e ti risponde una voce preregistrata che ti dice di dare nome cognome e dati? Ecco, loro fanno questi tipi di software”
“Capito” dissi. Non era vero.
“Adesso ti faccio sentire delle parole in italiano, e tu devi scrivere quello che senti”
“Non sembra difficile”
“Non lo è, infatti”
“Hai il visto regolare?” chiese.
“Sì, ho il working-holiday”
“Anch’io ho quello”
“Quando sei arrivata qui?”
“Quasi un anno fa”
“Quindi ci sei quasi”
“Lo so, e qui mi hanno già detto che non mi offriranno la sponsorizzazione per restare”
“Peccato”
“No, voglio viaggiare” disse lei. “Ora ti lascio al test, che ho delle cose da sbrigare. Quando hai fatto vai da Georgine – la vedi la donna alla scrivania lì? – e le dici che hai finito”
Ci salutammo e Monica scomparve. Misi le cuffie. Una voce da uomo di mezz’età leggeva una lista di parole. Io dovevo solo scrivere quello che sentivo. Mi sembrava troppo facile, doveva esserci una fregatura. Risentii tutte le parole 3 o quattro volte. Alla fine le trascrissi, salvai e andai da Georgine.
“Grazie” disse lei con un gran sorriso. “Ti faremo sapere”
Uscii dall’ufficio un po’ confuso. Che cazzo di lavoro era mai quello? Vabbè, tanto non mi avrebbero chiamato.
Nell’ascensore una donna anziana ben vestita mi guardò sorridendo.
“Non è terribile quando l’ascensore ha questo odore strano?”
“Che odore?” chiesi, chiedendomi se non fossi stato io.
“Non so. Un odore… di ascensore”
Guardai la vecchia, lei guardò me. L’ascensore arrivò al piano terra. Uscimmo senza parlarci.
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Marco “Frullo” Frullanti –
“Il sogno australiano”: Intervista all’autore su “L’indro”
Marco “Frullo” Frullanti –
Dalle recensioni su Amazon:
“Ve lo consiglio.. è scritto molto bene, scorrevole, divertente. Senza che ve ne rendiate conto lo avrete finito, è un piacere leggerlo! Come me, anche voi, avrete la sensazione di esserci stati in Australia (e di volerci ‘tornare’ prima possibile) accanto al vostro nuovo ‘amico’ Mattia. Avrete l’impressione di conoscerlo sul serio questo strano tipo, di averlo visto sperimentare i lavori più assurdi, le situazioni imbarazzanti e gli improbabili incontri.
Compratelo, Mattia non vi deluderà!”
“se volete farvi in giro nella terra a testa in giù, se volete ridere di gusto perdendovi fra lavori assurdi e situazioni assolutamente inimmaginabili da queste parti, se volete capire cosa si prova a stare lontano dalla propria vita passata per essersi avventurati in qualcosa che da ragazzo vi sembrava solamente un sogno, insomma se volete farvi un “viaggio” fuori dall’ordinario, latinoaustraliana vi aspetta!”
“Cosi’ esordisce questo bellissimo libro che ho appena finito di leggere. Devo dire che e’ ben scritto, scorrevole e ironico. Ti fa scoprire una terra di cui ti innamorerai anche se non ci sei mai stato, o se non hai mai avuto voglia di visitarla. Da leggere e partire subito dopo per l’Australia.”
“Anche se sono un vecchiarello (36 anni) mi ha fatto venire voglia di riprendere il mio backpack, salutare amici e parenti e lasciarmi tutto alle spalle. Si legge tutto d’un fiato, meglio se accompagnati da un bel White Russian! Un libro che consiglierei a tutti quelli che amano l’avventura e che hanno imparato a viaggiare “per la stessa ragione del viaggio” senza una meta.”
“Latinoaustralia e’ un libro molto divertente con alta dose di realismo per tutti gli backpackers intendi ad avventurarsi nella terra nullus. Alcol, sesso, lavori dubbiosi con territori pieni di serpenti, mosche e scorpioni affollano le pagine di questo libro. Un libro da leggere!”
“E’ diverso dal classico “diario di viaggio”, lo stile fresco dell’autore, unito al fascino dell’Australia, trasmesso con maestria, regalano ore di autentico piacere.
E’ il punto di vista di chi in Australia ci è andato prima del recente boom migratorio, di chi ci è andato perché realmente voleva costruire lì il proprio futuro, con la consapevolezza che l’impegno paga.
Un libro che consiglio a tutti, non solo a chi sta pensando di trasferirsi dall’altra parte del mondo per trovare fortuna, ma anche a chi è interessato a capire perché aumentano ogni anno quelli che vogliono vivere in Australia”