Anteprima |
3 ottobre 2453
Un anno e tre mesi dopo
Una vibrazione improvvisa saettò lungo il pavimento.
Mirna spalancò gli occhi. La prima cosa che vide fu il sole, così rovente da perforarle il cervello. Deglutì, la gola riarsa; si girò su un fianco, cercando di raccapezzarsi. A pochi passi da lei giaceva Adrian, rannicchiato su se stesso, il corpo scosso a intermittenza dai brividi.
Si tirò su a fatica, allungando una mano per sfiorargli la fronte: era bollente.
Sbatté le palpebre, cercando di mettere a fuoco la vista, concentrandosi su una decina di scatolette rovesciate a terra.
Ora ricordava. Si erano spinti fuori dal nascondiglio proprio quando il sole era a picco. Era rischioso, ma non mangiavano da troppi giorni, e Adrian era indebolito da una brutta febbre che non accennava a diminuire. Stremati per lo sforzo, non avevano avuto abbastanza energie per tornare indietro.
Una nuova scossa le riverberò lungo il braccio su cui si appoggiava al pavimento. Sbalordita, Mirna sollevò una mano, per schermarsi la vista e guardare all’orizzonte.
Lontano, tra i cumuli di macerie, vide profilarsi la sagoma di uno scarafaggio gigantesco, dalla corazza scura e lucida.
Spalancò la bocca, continuando a osservarlo stupefatta. Poco a poco, i contorni dell’insetto assunsero maggiore chiarezza. Tirò un sospiro di sollievo quando capì cos'era.
“Adrian!” urlò Mirna, precipitandosi a scuotere il corpo inerte del suo compagno. “Adrian, avanti, svegliati! Sono loro! Sono i carri armati!”
Euforica, tornò ad alzare lo sguardo.
“Sono venuti a salvarci,” mormorò, la vista appannata dalle lacrime.
7 novembre 2453
Un anno e quattro mesi dopo
“Ci siamo quasi,” esclamò Soldato Uno.
Non aveva trovato un altro modo per chiamarlo. Soldato Uno, il pilota dei veicolo, per distinguerlo da Due, il capocarro sempre chino sul monitor in cui lampeggiava il segnale del GPS, e Tre, l’addetto al personale civile a bordo.
Non si erano presentati, quando li avevano salvati. Non avevano detto da dove venivano, dove erano diretti. Non avevano risposto alle sue domande, né spiegato qual era il piano.
Eppure, Mirna non poteva lamentarsi; i soldati avevano curato lei e Adrian, fornendo loro strane pillole grigie che le avevano fatto ritrovare le energie fin dal primo giorno, si erano fermati parecchie volte per recuperare altri sopravvissuti e avevano via via riempito il carro fino al massimo della sua capienza. Non avevano quasi rivolto loro la parola, ma li avevano aiutati e protetti, e questo, per il momento, le bastava.
Adrian le strinse la mano, piegandosi verso di lei. “Non vedo l’ora di vedere la città,” le sussurrò, con una nota entusiasta nella voce ancora roca.
Mirna si voltò a guardalo: la febbre era svanita da giorni, per fortuna, e un entusiasmo straordinario gli luccicava sul viso. Lo stesso entusiasmo si rifletteva nei volti di tutti i loro compagni di viaggio, una ventina di sopravvissuti spauriti che se ne stavano mezzo aggrappati ai sedili, posti in file e addossati alle pareti dello scafo, con l’aria di concentrare tutte le forze nel non perdere la presa a ogni scossone del veicolo.
Strano; non si era mai accorta che Adrian avesse le lentiggini.
Una fitta di amarezza le mozzò il respiro. Lei, questa città, non aveva alcun desiderio di vederla, ma non poteva permettersi di ammetterlo con il suo compagno. Non poteva abbattere con il suo cinismo tanta eccitazione. “Già,” mormorò a mezza bocca, grattandosi la pelle irritata del collo. Non riusciva ancora ad abituarsi a tenere il corpo imprigionato dentro la strana tuta unisex che le avevano fornito i militari, spiegandole che aveva effetti igienizzanti e regolatori del sudore e che, da quel momento in poi, sarebbe stata l’uniforme di tutti gli abitanti della nuova città.
Gettò un’occhiata al radar su cui era chino Soldato Tre. Sullo schermo, c’erano decine e decine di puntini, incolonnati uno dietro l’altro. “Quelli sono altri carri armati, vero?” chiese.
Il soldato la esaminò da capo a piedi come se la vedesse per la prima volta. “Quanti anni hai, ragazzina?” chiese, ignorando la sua domanda.
“Sedici.”
“Sei curiosa,” sottolineò con una smorfia di rimprovero, per poi tornare ad abbassarsi sul radar senza più degnarla di uno sguardo.
Adrian le diede un colpetto con un gomito, afferrandole una mano e rigirandola tra le sue. “Su, non disturbarlo,” commentò con una risatina nervosa.
Mirna si morsicò un labbro. Non le era sfuggita l’occhiata infastidita che le aveva rivolto il militare.
“Siamo arrivati,” proclamò Soldato Uno con voce gelida prima che la rabbia avesse il sopravvento e le sfuggisse un commento velenoso. “Potete scendere.” Con un ultimo scossone, il veicolo si fermò.
“Scendere?” mormorò Mirna sorpresa. Un brivido improvviso le guizzò fino alle dita dei piedi. Ora che si era abituata a quella temperatura confortevole aveva l’impressione che non sarebbe più stata capace di sopportare nemmeno per un istante il gelo della neve o il calore ardente del sole.
Il soldato si alzò dalla sua postazione, attraversò il veicolo scavalcando con agilità insospettabile il groviglio di gambe dei sopravvissuti, raggiunse la parete di fondo e spalancò con decisione il portellone. Scese all’esterno e fece un gesto secco con un braccio per invitare tutti a seguirlo.
Le dita di Adrian, che le stringevano la mano, si infiacchirono. Doveva essere spaventato quanto lei, ma si ostinava a trattenere un sorriso più o meno saldo sulle labbra. Mirna si alzò, quasi andando a sbattere con la testa sul tettuccio dell’abitacolo, e si avvicinò esitante all’uscita.
Scese la piccola rampa a occhi chiusi, certa che le sarebbero precipitati addosso blocchi di grandine così grandi da frantumarle la testa, invece non accadde nulla. Inspirò, espirò, senza sentire alcun rumore a parte il sibilo sommesso del motore del carrarmato che si stava spegnendo.
Si arrischiò a riaprire gli occhi nel momento in cui sentì Adrian, alle sue spalle, fischiare per la meraviglia. Sbatté le palpebre, e spalancò la bocca per la sorpresa.
I suoi piedi posavano su una strada di cemento intatta: una lunga distesa grigia liscia, senza imperfezioni. Restò immobile per qualche secondo, faticando a credere che quello che stava accadendo fosse reale.
Si piegò sulle ginocchia, tastando con i polpastrelli quel suolo solido e freddo. A vista d’occhio non c’era terra, neanche il più misero stelo d’erba. Sollevò lo sguardo e vide gli alti edifici squadrati, illuminati da gelide luci al neon e identici l’uno all’altro, che costituivano le ossa di quella nuova città. Era tutto asettico, come se davvero l’agglomerato fosse sorto da un giorno all’altro e nessuno ci avesse mai abitato.
Mirna trattenne il respiro e trovò la forza di alzare la testa, guardando in alto. Quando vide, non poté impedire che le sfuggisse un gemito.
Sopra di lei non c’era più il cielo azzurro, malato ma pur sempre naturale.
C’era una volta immensa, oscura come una maligna nube nera.
Lo stupore sfrecciò da lei a tutti gli altri sopravvissuti, che stavano ancora scendendo uno dopo l’altro dai carri armati, ma ognuno reagì in modo diverso. Mirna sentì gridolini di eccitazione mescolarsi a pianti di gioia. Adrian le afferrò un braccio con tanta energia da affondarle le dita nella pelle, scosso da un tremito d’entusiasmo. “È meraviglioso!” le urlò nelle orecchie.
Mirna gli lanciò un’occhiata obliqua. Stava per reagire con un sibilo, ma una voce squillante alle sue spalle la bloccò.
“Benvenuti, cari amici.”
Si voltò di scatto, concentrando l’attenzione su un piccolo palco allestito di fronte ai carri armati, tappezzato di coccarde variopinte e gremito di uomini dall’espressione impassibile. Indossavano una tuta che sarebbe stata identica a quella che le avevano assegnato i soldati, se non fosse stato per tre strisce che decoravano una spalla, di colore rosso sangue, simili agli squarci inferti dagli artigli di una tigre.
L’uomo che aveva parlato, in piedi davanti agli altri e con le mani poggiate con sicurezza sulla balaustra del palco, pareva calmo, ben nutrito e padrone di sé. E aveva il volto sereno, liscio e perfetto come se non fosse stato obbligato a passare dei mesi in balia degli elementi. Era così diverso dalla massa di disperati che le si accalcavano accanto: come un principe davanti a una folla di contadini cenciosi.
“Questa è Murian, la vostra nuova città,” proclamò l’uomo con voce trionfante. “E quella che vedete sopra di voi è il suo simbolo, da cui dipende la salvezza di tutti noi. La Cupola.”
I mormorii ammirati degli altri sopravvissuti l’avvolsero in un bozzolo caldo, ma Mirna non riuscì a trattenere una smorfia. Le palpebre le tremavano al solo pensiero che, per tutta la vita, sarebbe stata costretta a vedere quell’opera mostruosa, che le avrebbe sottratto per sempre la luce del sole. “Chi siete? Dove ci troviamo? Cos’è questo posto?” chiese, senza riuscire a capire nemmeno lei perché nelle sue parole si fosse insinuato un tono così provocatorio.
L’uomo la fissò con lo stesso sguardo imperturbabile di Soldato Tre. Ma, un istante dopo, le sue labbra si ammorbidirono in un sorriso caldo come il ghiaccio. “Siamo Agenti Governativi. Potete chiamarci AG, mentre da ora in poi ognuno di voi sarà un CM: un Cittadino di Murian.
“Quanto al domandarvi dove siete, non ha più importanza. Questa città sarà la vostra nuova casa, per sempre. Non c’è modo di uscire. Devo forse ricordarvi che l’ambiente, fuori da qui, è inospitale?” concluse inarcando un sopracciglio.
“Agenti Governativi? Di quale governo?” insistette Mirna, ignorando Adrian che la strattonava per un braccio con espressione implorante.
Il sorriso dell’uomo si allargò in una smorfia innaturale, che non arrivò a lambire gli occhi. “Sapete in che anno siamo?” chiese, ignorando la sua domanda. Proprio come Soldato Tre.
“Oggi è il 7 novembre 2453,” rispose pronta Mirna. In tutti quei mesi di agonia aveva tenuto il conto con regolarità. Era l’unico modo per mantenere un po’ di ordine nella sua vita, quando niente, più, aveva senso.
“No,” rispose secco l’uomo. “Questo è il giorno della Fondazione di una nuova società. Oggi è il primo giorno, del primo mese, del primo anno. Da oggi, la storia dell’umanità cambia.”
Staccò le mani dalla balaustra. “Avvicinatevi,” disse liquidandola con una naturalezza invidiabile e rivolgendo ai sopravvissuti un gesto benevolo. “Vi mostrerò le funzionalità delle Unità Abitative che vi sono state assegnate. Vedrete, vi piaceranno: sono altamente tecnologiche, non hanno niente a che fare con le case del passato. Noi le chiamiamo UA.”
Grida di gioia scoppiarono tutto intorno a lei, soffocandola come una coperta troppo pesante premuta sul viso. Un velo di tristezza la avviluppò, e il cuore rallentò la sua corsa frenetica; forse, si stava stancando di battere.
Senza arrendersi, Mirna aprì di nuovo la bocca per porre altre domande, ma Adrian la anticipò, stritolandola in un abbraccio e incenerendo dentro di lei ogni tentativo di ribellione.
“Siamo salvi, tesoro, ti rendi conto? Salvi!” gridò carezzandole i capelli aggrovigliati e deponendole un bacio tremante sulla fronte.
Il suo cuore si calmò e Mirna abbandonò le mani lungo i fianchi, sconfitta. Sospirò, mentre lo sguardo le volava infelice in alto.
Verso la Cupola.
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Marco “Frullo” Frullanti –
“Quando leggevo fantascienza cercavo continuamente bei romanzi scritti da donne, e bei romanzi italiani, difficilissimi da trovare. Per questo un romanzo come Fernweh è ancora più prezioso” – (Recensione su forum Verdecammino)
Marco “Frullo” Frullanti –
“Chiara Zanini ha saputo narrare una piccola epopea dalla narrazione cristallina e caratterizzata da una gestione efficace dell’ambientazione” – Recensione sul Forum “Writer’s Dream”
Francesco Rebechesu –
Mi è piaciuto molto, Fernweh .un romanzo che l’ho letto in un batter d’occhio- Un bel racconto -Vorrei che ci fosse un proseguo–