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La respirazione a bocca spalancata, costante e veloce, che attraversa idealmente il fisico da capo a piedi, accelera le percezioni dell’io.
La mia guida al corso di rebirthing, Laura, mi scruta, mi studia e mi assiste; con voce profonda, posata e sicura, mi incita a aumentarne il ritmo, e a farlo diventare riempitivo fino a che l’iperossigenazione condotta nel mio corpo inizia a concretizzare immagini e sensazioni.
Il mio sguardo è immerso in un mondo interiore, dove il limite del presente e del corpo umano si annienta per spaziare in quello del tempo e dei sentimenti.
Rivedo lo spazio percorso nell’arco di questo mezzo secolo, i molti luoghi dove ho vissuto.
Un eco di sguardi e applausi che si inseguono, privi d’identità. Il calore freddo che mi ha avvolto e che mi avvolge ora, con le sue spirali, come un’aura glaciale. È la colonna sonora che mi ha visto crescere, tra le carovane, e che è stata l’amara melodia in tre quarti di questa insana esistenza.
La mia famiglia è una comunità di quattrocento elementi instabili, dagli idiomi diversi; volti e lingue che si confondono gli uni con le altre, come cerchi nell’acqua che si intersecano e si dileguano, con la consapevolezza che prima o poi si dissolveranno, e come granelli di sabbia si disperderanno al soffiare del primo vento carico di migliori promesse e occasioni.
Una fattoria popolata da leoni, tigri, elefanti e cavalli: il mio cortile. Odori acri e forti di animali in cattività.
I bambini di città mi invidiano per questo, mentre io ammiro l’albero, l’albero del parco, perché in qualche modo ha un suo posto dove stare, circoscritto e definito.
È lì.
Anno dopo anno, sempre lì per chi lo vuole vedere, toccare, odorare; semplicemente lì.Un punto fermo e forte nel caos del mondo.
Mia madre, gitana per passione, anticonformista per volere divino, nacque in Germania da una famiglia della media borghesia subito dopo la Prima guerra mondiale.
Un numero di contorsionismo acrobatico fu il suo lasciapassare per l’esistenza, il mezzo che la portò prima a esibirsi in qualche evento locale, e nel corso del tempo a innamorarsi dell’uomo che fu mio padre, Armando, di sei anni più grande di lei.
Divenne moglie e madre devota di una dinastia di circensi consolidata già da tempo.
Mio padre si esibiva da sempre nel circo di famiglia, frutto del bisogno e della passione di un nonno che prima della guerra girava i paesini dell’Italia con un orso ballerino e numeri di acrobazia.
Con il tempo si sarebbe trasformato nel grande circo che è ora.
Si conobbero tra gli eventi di un’Europa che aveva perso la sua umanità. Le comete che illuminavano le loro prime notti d’amore erano le scie luminose di bombe, seguite da urla di terrore, morte e distruzione.
Il loro non appartenere a nessun luogo, comunque, li preservò dalle tristi vicende che colpirono in quei tempi quasi ogni famiglia, e permise loro di formarne una propria.
Io vidi i natali come terzo figlio nel 1953, in territorio tedesco, quando l’inverno lascia spazio al tepore della primavera, e come auspicio e marchio di famiglia mi misero il nome del nonno paterno, quello dell’orso ballerino.
Ferdinando.
Consciamente o inconsciamente i miei genitori avevano già deciso il percorso di quella che sarebbe stata la mia esistenza.
Capii crescendo che quel nome per me simboleggiava il mio privilegio e la mia galera, l’onore e la condanna; una cambiale che pendeva come una spada di Damocle sul mio capo.
Era il prezzo da pagare per una vita che non avevo chiesto e voluto.
La giornata iniziava presto, con un abbraccio e una cioccolata calda alle cinque e mezzo del mattino. Mi svegliava mia madre, mentre dormivo nel fondo della carovana, dove si trovava il mio letto, che per i primi anni condividevo con mio fratello Sergio, nato tre anni prima di me.
Karl, l'altro fratello, di anni più di me ne aveva tredici, e occupava già uno spazio ben definito all’interno della nostra casa viaggiante.
Fuori dal finestrino a quell’ora c’era già il fermento delle persone che portavano il cibo agli animali e che ne curavano i giacigli.
Una comunità che mai si fermava: nella mia testa di bambino mi domandavo a che ora si svegliassero gli adulti, e se mai andassero a dormire.
Ora, qui, in questo ambiente silenzioso, sicuro e raccolto, come lo era quella mia casa ambulante di allora, con l’assistente che mi tiene la mano, mi sento trasportato in quello spazio temporale, e la sua voce calda mi guida, sussurrandomi di raccontarle quel bimbo di tre anni che scruta con sguardo severo il mondo degli adulti scivolargli accanto.
Mi concentro sulle mani di mia madre, lunghe, affusolate, forti. Mi porge la tazza nella quale immergo il viso fino a farlo scomparire. Il profumo della cioccolata m’invade le narici e inebria i miei sensi. Sento il calore del liquido che scalda quel corpicino esile che un tempo mi apparteneva.
Nessun anello al dito e io che le chiedo perché le altre mamme, quelle di città che la sera invadono gli spalti con i loro bimbi, li portano.
Con un sorriso lei mi risponde dolcemente: “Perché le altre mamme non si esibiscono in numeri di acrobazia!”
“E cosa fanno le altre mamme allora?” domando.
“Altre cose, amore… cose diverse. Loro possono permettersi di portare gli anelli, io no, sai, potrebbe essere pericoloso… ma ora ti rivelerò un segreto: io di anelli ne ho quattro, sono qui, chiusi nel cuore… uno per ognuno di voi, che siete le perle della mia vita, e uno per il tuo papà… ma solo io li posso vedere perché sono troppo preziosi e non voglio che qualcuno me li possa portare via!”
I miei primi passi li feci tra campi impolverati e in bilico su di una fune tesa.
Non significava essere speciale, ma semplicemente essere come gli altri bambini del circo, in quanto non conoscevo ancora un mondo diverso a cui potermi raffrontare.
Ero cresciuto tra carovane, saltimbanchi, scimmie e leoni, e treni, e campi polverosi, indiani, pakistani, tedeschi, italiani, africani e spagnoli, slavi, inglesi; tra costumi, artisti, colori sfavillanti e luci artificiali.
Il mio mondo era quello, era la realtà che ovunque andassi c’era.
Un paesello di quattrocento anime dove tutti si conoscevano e dove ognuno aveva un suo ruolo definito, e allo stesso tempo erano braccia, mani e corpi pronti a far fronte a eventuali difficoltà.
I momenti che ricordo con maggiore piacevole sensazione di benessere, però, erano quelli che passavo ad accudire e giocare con gli animali.
Nella mia fattoria trovavano alloggio otto elefantesse, tutte femmine, che andavano dai due anni ai quattordici.
I maschi di elefante non potevamo gestirli, perché durante la stagione degli amori erano incontenibili e la furia di uno di loro avrebbe messo a rischio l’incolumità di chiunque si fosse trovato sul loro cammino.
Con loro il mio rapporto era fatto di sguardi e telepatia.
Animali molto intelligenti, gregari e socievoli; una volta che hanno capito le tue intenzioni si lasciano guidare tranquillamente. Necessitano di cure costanti per il giaciglio e di quantitativi di erba, frutta e fieno incredibili.
Per non parlare dell’acqua che serve a dissetarli e a lavarli. Hanno sempre bisogno di ampi spazi dove potersi rotolare, in maniera che la terra essiccata sulla pelle tolga loro i parassiti.
Sono bellissime, le mie nuvole grigie: così le chiamavo io perché solo il loro apparire mi offuscava il sole. Durante lo spettacolo le loro enormi teste sono addobbate con copricapo rosso e oro e cinghie di cuoio oro ricolme di decorazioni tessili.
Una corsia rossa che passa sul dorso e una sella fatta apposta per rendere più piatta l’accesa curvatura, permettendo così maggior stabilità agli artisti che si esibiscono su di loro.
Il mio debutto in scena lo feci proprio con una delle mie elefantesse, cavalcioni sul collo, vestito da piccolo marajà.
Avevo appunto più o meno tre anni.
La scuderia di cavalli, poi, era altrettanto fantastica: ci sono stati periodi in cui ne contavamo diciotto, tutti rigorosamente bianchi, eccetto uno stallone nero, maestoso.
Anche la cura di queste creature richiede svariate ore di lavoro, e molto personale: ogni giorno necessitano di essere portati fuori, di correre nel recinto e nell’arena.
Ad occuparsene erano per la maggior parte indiani, del Bangladesh, ma c’era anche un ragazzo austriaco, veramente appassionato di queste magnifiche creature, che dirigeva la squadra dei lavoranti.
Avevano dei pennacchi viola di piume sul capo e bardature provenienti dall’artigianato berbero.
Quando avevo circa sei anni, il pomeriggio mi piaceva cavalcare intorno al circo, provando quella confidenza tra me e loro nell’inventare andature con riti particolari che solo io riuscivo a cadenzare.
E poi c’erano le vere attrazioni del nostro circo: le tigri, quelle gialle tradizionali e quelle bianche, e i leoni.
Avevamo anche due pantere nere che però non si esibivano.
Erano inserite nel contesto dello zoo del circo, come il cammello, l’ippopotamo, alcune scimmie, uno scimpanzé e il vecchio orso del nonno, che era ancora l’emblema e lo stendardo della nostra famiglia.
Un numero non ben precisato di cani e gatti dimoravano poi nei carrozzoni dei rispettivi proprietari.
Ma i grandi felini erano da sempre il mio polo d’attrazione.
Sono sempre stato affascinato dai loro suoni gutturali, profondi e potenti, dalle loro zampe così poderose che possono essere armi micidiali o strumenti capaci di vellutate e morbide carezze.
Gli occhi chiari o gialli che ti penetrano dentro l’anima.
Ti scrutano e studiano attentamente. Sembrano inespressivi ma sono pronti a percepire ogni piccolo segnale di pericolo e come delle sfingi non tradiscono alcuna emozione.
I disegni del manto che sembrano a un profano tutti uguali, in realtà godono di differenti striature che le differenziano e le distinguono.
Amavo in maniera incondizionata quelle fiere e sapevo che loro amavano me. Me lo dimostravano in continuazione, quando arrivavo nei pressi delle gabbie e loro si calmavano.
Le immaginavo studiarmi con superbia benevolenza, mentre emettevano dei suoni che io interpretavo di felicità. Non ne avevo paura, sebbene non mi fosse permesso avvicinarmi oltre la soglia consentita dalla sbarra di protezione.
Alcune di loro erano nate da noi, altre in cattività ma in luoghi differenti.
Nei circhi non si possono avere fiere che provengono dallo stato brado, ma solo quelle nate in cattività. Ormai sono felini che da almeno quattro generazioni conoscono e condividono gli spazi con l’uomo, sono come dei gattoni che non hanno consapevolezza della loro forza e dimensione.
Tra tutti amavo la piccola Terry, che nacque presso di noi quando avevo dieci anni. Assistetti al parto della madre: lei uscì dal suo ventre come un miracolo.
Fu la prima di quattro cuccioli, e la prima tigrotta bianca che presi in braccio.
Fu la mia compagna di giochi, finché mi fu concesso farlo, fino a quando i miei iniziarono a temere che il suo sviluppo, esponenziale rispetto al mio, mi potesse causare del pericolo.
Ma anche quando fummo divisi dalle sbarre, rimanemmo sempre legati come due cuccioli dello stesso branco.
Mio padre con i felini aveva costruito un numero di figurazioni e salti spettacolari, singoli e incrociati, con cerchi di fuoco e pozze d’acqua.
Lui era il loro capobranco, temuto e rispettato ma anche molto amato.
Entrava nella gabbia, conscio del pericolo, ma anche sicuro di godere di un affetto smisurato da parte loro.
Non per questo, comunque, ogni volta che era in loro compagnia, era privo di guardie armate di fucili caricati con potenti sonniferi ai bordi delle gabbie e delle transenne.
La paura di mio padre non era nell’attacco a tradimento di uno di questi colossi, ma nel loro troppo amore.
Temeva che succedesse come a quella coppia di prestigiatori americani che si esibivano con un enorme successo a Las Vegas: una delle loro tigri, portata a esibirsi per la prima volta in pubblico, impaurita dal rumore e dalle luci della ribalta, per proteggere il suo mentore da tutta quella confusione lo prese come se fosse un cucciolo per la collottola, per portarlo in un posto più sicuro, ma nel farlo gli recise dei nervi, rendendolo infermo e senza più possibilità di parola per il resto della vita.
Mio cugino e i fratelli, più grandi di qualche anno, già padroneggiavano le sapienti tecniche dell’equitazione, dell’addestramento, della ginnastica e delle discipline necessarie a incantare gli spettatori che ogni sera accorrevano per evadere qualche ora dalla monotonia nel mondo magico del tendone a righe.
Provenivano dalle loro case fatte di mura solide e spesse, tetti, camini, poltrone, televisioni e bagni confortevoli.
Per noi era nell’ordine delle cose pulire le stalle degli ospiti a quattro zampe, osservarne il comportamento, comprenderne le intenzioni, praticare ginnastiche per ore con i compagni del villaggio; giochi e impegni di bimbi si amalgamavano in un tutt’uno in questa società ambulante.
E poi c'era la scuola.
La scuola, quella classica per antonomasia, era composta da alunni di età diverse con un’unica maestra, voluta e messa a disposizione da mio padre per dare una continuità ai diversi insegnanti delle scuole che nelle varie città ci ospitavano.
Papà sosteneva che l’educazione e la cultura fossero un bene irrinunciabile per i figli del circo.
Uno dei tanti aspetti borghesi che nessuno si aspetterebbe di trovare sotto a un tendone.
Ovunque andassimo ci inserivamo tra i banchi di classi già formate per assistere alle lezioni impartite da insegnanti senza nome e che nulla sapevano di noi.
Eravamo i bambini del circo, visti come degli zingari, nel senso peggiore del termine, ma che poi, a suon di biglietti omaggio e di aneddoti riguardanti «paurose belve» e «magici fachiri», diventavano in breve piccoli trofei da avere nel portafoglio delle amicizie.
Eppure la scuola del circo era diversa, aveva la magia della costanza e del ritrovare visi che conoscevi; e l’insegnante Loreen, svedese sposata con un italiano, sapeva chi eri tu e tu com’era lei.
Tra noi c’era chi iniziava a scoprire il potere della scrittura e chi già macinava l’arte della lettura e della storia.
Tutti in un’unica classe, dove spesso la lavagna era la sabbia del terreno e i banchi erano panchine di legno o tronchi di alberi, alla luce calda del sole del sud dell’Europa.
Apprendevamo sui libri quello che la vita nomade ancora non ci aveva insegnato, iniziavamo a conoscere e comprendere le leggi che regolavano quelle cose che facevano i grandi con assoluta maestria, come montare e smontare il grande tendone seguendo delle invisibili tracce di priorità, gravità, spazio e tempo.
Ma non era tutto: c’erano i numeri, i disegni, la logica, la recitazione e il canto.
Quello che capii subito è che i nomi propri hanno un suono unico, mentre tutto il resto, azioni, gesti, oggetti e sentimenti si potevano identificare con suoni diversi, in base alla lingua che si adoperava per farci comprendere dal nostro interlocutore.
Crebbi parlando cinque lingue, nell’assoluta normalità degli eventi, perché così era.
Ma ognuno di noi brilla per una sua peculiarità, e la mia era, a sentire i racconti di mia madre, il silenzio. La tranquillità del silenzio riempiva il mio modo di essere. Uno sguardo lungo attento al mondo che mi girava intorno, al contempo affascinato e indagatore, taciturno e pensieroso.
Ci spostavano da una piazza all’altra, in media ogni due settimane.
Uno sforzo enorme da parte di tutti, e ciò accadeva in genere la notte, nel silenzio più assoluto.
Gli abitanti delle case di periferia che confinavano con gli spazi che i comuni ci concedevano spesso non si rendevano nemmeno conto della nostra partenza. Al mattino si svegliavano ritrovando il vuoto là dove il giorno prima dominava il colore, l’odore e la confusione.
Trasferire tutta questa fattoria fino ai vagoni del treno era impresa di alta abilità. Soprattutto spostare gli otto elefanti era un evento che destava grande ammirazione, paura e stupore in chi riusciva a scorgere questi pachidermi mentre diligentemente si legavano tra loro code con proboscidi lungo le strade della città.
E ancora i caravan, le gabbie con le fiere, e tutto il resto.
Era un mondo che svaniva nel nulla e che si sarebbe ricomposto dopo qualche giorno, se non il giorno dopo, in un altro luogo a centinaia di chilometri di distanza.
Io lavoravo e contribuivo con le mie forze a questo piccolo miracolo, come facevano tutti, e allo stesso tempo contemplavo e subivo la magia di questi attimi.
Continua a respirare con la bocca aperta. Profondamente. Senti l’aria che ti riempie i polmoni, scende nei tuoi organi, si dirama per il corpo, irrora ogni singolo poro e capillare della pelle. Respira profondamente e concentrati sull’immagine che hai ora in mente.
Sento queste parole come un'eco lontana, un sussurro all’anima, una guida nel mondo di quel che fui, che poi non è che la conseguenza di ciò che ora sono.
Nell’oblio della regressione sento la voce di mio padre, sta parlando con i miei fratelli che sono già all’opera nel loro esercizio quotidiano, che presto diventerà anche il mio.
Lui è forte e sicuro, con il fisico possente ed elegante, le mani robuste, e lo sguardo attento e profondo. I capelli neri sono lisciati perfettamente dalla brillantina che li rende uniti e lucidi.
È bello il mio papà!
Non ha paura di nulla.
È sicuro nel suo incedere, fiero e cordiale.
Questo è il suo biglietto da visita.
Ora mi sembra quasi impossibile che quella voce posata e autorevole, rispettata e temuta sia dalle fiere che dagli umani, in poco tempo si sarebbe trasformata in un rantolo senza energia, un lamento di supplica alla morte, che le chiede di avere pietà e di fare presto.
Ma questo è già più in là nel tempo; la mente e il corpo ora non seguono più la strada sicura della mia guida, ma vivono di una vita propria, fatta di spasmi corporei e di lacrime che fioccano dagli occhi e scendono ad assolvere le ferite del passato.
Per oggi basta Ferdinando. Rallenta il respiro. Ascolta il cuore che torna ai suoi battiti regolari. Non ti muovere finché ti tengo la mano… ecco… ora guarda il fiore che ti sto porgendo. Focalizzalo… sì, bene, bravo… le tue pupille si stanno riabituando alla realtà e alla luce. Ti preparo un tè, rimettiti seduto sulla poltrona e cerca di ricordare cosa hai visto e cosa «sei stato» in quest’incontro. Senti una sensazione di benessere? Ti senti riposato? Leggero? Come stai?
Laura mi si avvicina con melodiosa tranquillità e mi porge la tazza del mio tè preferito, quello verde aromatizzato al gelsomino con solo due minuti di infusione a settantasei gradi.
Lo inalo prima di sorseggiarlo per gustarne il sapore con l’olfatto, per guadagnare tempo su quello che lei mi chiederà, e sento il colore verde che si diffonde nel corpo.
La guardo dietro la cortina di fumo che sale dalla tazza.
Laura è bella, dolce, e sicura di sé; sa come mettermi a mio agio e rompere il silenzio che regna nella mia anima.
Che valore dai alla visualizzazione dell’anello? Ricordi? Dicevi che le mani della tua mamma brillavano ai tuoi occhi per l’assenza di anelli… della voce di tuo padre. Cosa pensi che significhino questi dettagli?
Come al solito, dopo ogni domanda, io prendo tempo, tanto tempo. Voglio essere sicuro di quello che dico, valuto le parole, le peso, le misuro, penso ai concetti che voglio esprimere. Solo una volta certo, emetto i fonogrammi che compongono il pensiero e li concretizzo in forma di risposta logica.
La mano è la vita che scivola via. È l’organo che mi ha dato da vivere e con il quale ho conosciuto e perso il mondo. Le mani sono strumenti dell’istinto, quelle che reagiscono prima che il cervello stesso comprenda il proprio messaggio. Le mani sono lo strumento che mi ha condannato al dolore eterno, alla colpa.
Sorseggio altro tè caldo e guadagno ancora tempo.
La voce è la comunicazione del pensiero, la sua realizzazione conclusa, evaporata in forma di suono. È la parte del corpo che ho usato di meno, quella più nascosta e invisibile. È grande il suo potere. Con la voce puoi incantare gli animali e le persone. Con la voce possiamo ingannare perfino noi stessi.
Laura mi scruta in silenzio. Nessuna ombra di giudizio o diagnosi trapela dal suo volto. È lì, a disposizione.
Lei è il mezzo che probabilmente mi porterà a comprendere cosa c’è di sbagliato in me.
Mi lascia trovare le parole senza badare al ticchettio della pendola che scandisce e ricorda la misura del tempo che incede inesorabile.
La guardo.
Un timido sorriso di riconoscimento e gratitudine mi affiora spontaneo sul viso.
In questo istante preciso capisco che questo è il luogo che ho cercato per molto tempo: il luogo dove ricostruire me stesso.
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Marco “Frullo” Frullanti –
Recensione su “Il Mondo Espanso dei romanzi Gay”
Marco “Frullo” Frullanti –
Intervista all’autore su “Pianeta Gay”
Marco “Frullo” Frullanti –
“A volte i libri li incontri per caso…o forse loro incontrano te. L’ho comprato incuriosita dall’ambientazione circense,mi sono ritrovata a leggere qualcosa di magico,poetico e commovente.” – da Piera su Amazon
Marco “Frullo” Frullanti –
“Eccezionale Un libro che si legge tutto d’un fiato. Originale l’ambientazione circense e intrigante la storia.” – Da Fabio Costacurta su Google Play
Marco “Frullo” Frullanti –
“Il romanzo è ricco di colpi di scena, la trama è intrigante. Questo è il punto di forza dell’opera. Il lettore, infatti, è sempre spronato ad andare avanti, la curiosità domina sulle pagine.” – Recensione su “Il Momento di Scrivere”
Marco “Frullo” Frullanti –
[Recensioni su Amazon]
Cosa dire… un libro che già dalla copertina ti colpisce…..quell’immagine’ e quel titolo mi hanno subito catturato….. e poi che dire il racconto con un susseguirsi di fatti che mai puoi immaginare…… stati d’animo di tutti i personaggi spiegati e narrati talmente bene nei quali mi impersonavo…. un’opera fantastica con un lavoro psicologico impressionante….
Un libro che tocca l’anima. I personaggi vengono delineati a poco a poco con coerenza che non spiazza il lettore ma lo accompagna nella comprensione della complessità degli eventi che li portano al loro modo di relazionarsi. Per anime sensibili. Consigliato
Un libro pregno di emozione di pathos , con una scrittura scorrevole ma molto coinvolgente. .. l Amore in tutte le sue sfaccettature che arriva alle corde dell’ anima . .sembra di respirarla la terra di quel circo .. Patrizia V.
A volte i libri li incontri per caso…o forse loro incontrano te. L’ho comprato incuriosita dall’ambientazione circense, mi sono ritrovata a leggere qualcosa di magico, poetico e commovente…un piacere per l’anima.
ho trovato questo libro scorrevole e piacevole… si legge con leggerezza anche se il racconto è carico di avvenimenti anche abbastanza forti.
questo bel libro si legge tutto d’un fiato. Appassiona, commuove e conduce il lettore in un grande spettacolo circense fino all’ultimo atto, il più estremo e spettacolare. Lo consiglio calorosamente
intrigante, appassionante.. Eccentrico … Un viaggio in un mondo che poi non è così lontano e diverso. Amore in tante forme
Un a lettura che ti fa dimenticare gli altri impegni della giornata. Veloce e piacevole come un film ben diretto. La trama tocca tanti argomenti e luoghi , che dopo un pomeriggio di lettura ti sembra di aver conosciuto tante persone e visitato mezza Europa.
Avvincente , di facile lettura e comprensione. Spero che questo autore pubblichi ancora.
Bello, bello bello!!! La storia ti prende già dalle prime pagine e ti fa leggere il libro in un solo giorno. La descrizione delle scene e dei personaggi è molto attenta, sembra di esserci dentro, anche se in alcuni punti può sembrare un po’ spinto senza però mai scendere nella volgarità. Consigliatissimo!!!
Marco “Frullo” Frullanti –
Il gesto è immediato, il linguaggio dei segni e del corpo godono di una potente istintività. Il linguaggio scritto invece ha una velocità lenta, profonda. Vive di lunghe elucubrazioni. Una frase, un periodo, prima di scriverlo lo si elabora decine di volte e spesso lo si torna a modificare fino a che sia consono al pensiero che si vuol trasmettere.
Intervista all’autore su “Ramingo Blog”
Marco “Frullo” Frullanti –
“Amori proibiti e impronunciabili, affetti che vanno oltre i legami consentiti, una storia che sfugge dalle mani di coloro che per mestiere, dovrebbero avere una presa salda.”
Bella recensione sul blog “Che libro leggere”
Mario –
Inquietante la copertina: è un angolo silenzioso di un tendone di un circo, ma rievoca qualcosa di oscuro. Nel libro si spargono sapientemente i semi della curiosità, le risposte verranno rivelate in tempi diversi verso la parte finale del libro e saranno spesso inquietanti. Efficaci le variazioni del ritmo narrativo (con l’introduzione di lettere e sedute di analisi) e i salti temporali. Riuscita anche la descrizione del rapporto tra madre e ultimogenito. Qualche errore di stampa di troppo