Estratto |
Capitolo primo
Autunno 2006
Anna camminava lentamente per una via periferica del suo quartiere, ormai era quasi mezzanotte e a stento trattenne uno sbadiglio. La mano destra salì a coprire la bocca e uno sguardo accusatorio si diresse verso il basso, dove un cucciolo di segugio austriaco camminava tirando con forza il guinzaglio che lo costringeva a limitare l’andatura.
“Hunter! Basta tirare! Sono stanca, falla finita!” un leggero strattone indietro e il cane finalmente rallentò il passo.
“Tu sempre nei momenti peggiori ti metti a raschiare la porta, vero? Su, muoviti, voglio andare a casa!”
Una brezza leggera animava quella serena notte di autunno. C’era una calma irreale tra i palazzi che si stagliavano all’orizzonte come giganti decrepiti. Solo il suono degli anfibi di Anna rimbombava nel vuoto, accompagnato dal respiro affannoso del cane.
“Hunter no! Basta! Ho sonno!” disse di nuovo Anna come se il cane potesse capire che era stanca, che veniva da una giornata estenuante all’università, che i suoi precedenti piani includevano una doccia veloce, un pezzo di pizza mangiucchiato davanti alla nuova puntata di Dr. House e poi una sana, grassa, agognata dormita. Hunter aveva rovinato tutto. Ancora prima che il secondo episodio del telefilm finisse, era arrivato stringendo in bocca il guinzaglio – Anna si stava ancora chiedendo come fosse riuscito a staccarlo dal gancio che lo teneva sospeso a oltre un metro e mezzo di altezza – e aveva iniziato a lamentarsi, piazzandosi proprio davanti alla TV. Anna aveva guardato implorante in direzione di suo fratello, infossato nella poltrona di pelle del salotto, ma aveva ricevuto in cambio solo una svogliata risposta: “Il cane è tuo, lo porti a spasso tu…”
“Grazie tante eh!” aveva gridato prima di uscire sbattendo la porta di casa, correndo giù per le scale del condominio, cercando di tenere il passo di Hunter che tirava, tirava, tirava come un pazzo cane rabbioso.
E ora si trovava ancora in giro e il segugio non sembrava per nulla disposto a tornare a casa.
“Hunter, vieni!” Anna cercò di far cambiare direzione al cane, ma in tutta risposta, questo prese ad abbaiare e a tirare fino a vincere tutti gli sforzi di Anna alla quale sfuggì il guinzaglio.
“Maledizione! Hunter, no!” imprecò, ma il cane era già oltre il primo incrocio e correva nell’oscurità, non lasciando ad Anna altra possibilità che inseguirlo. I lunghi capelli svolazzarono sulle spalle mentre scattava in avanti, cercando di non perdere di vista il cane nero, ma dopo pochi isolati, Anna fece i conti con la sua vita da studentessa universitaria che, da cinque anni, non alzava mai le chiappe dalla sedia, come gentilmente affermava suo fratello. Iniziò a respirare con crescente affanno finché fu costretta a fermarsi e poggiare le mani sulle ginocchia, tentando di riprendere fiato.
Maledettissimo, stupido segugio… Pensò fra sé, mentre riprendeva a camminare lungo la via, illuminata malamente da pochi lampioni, con il fiato ancora corto, lo sguardo fisso a scrutare ogni angolo e un crescente senso di angoscia che pesava come un macigno sulla bocca dello stomaco.
Dove diavolo si era cacciato? Dove diavolo era finito?
“Hunteeeeeer! HUNTEEEEEEER!”
Controllò sotto ogni macchina. A ogni incrocio sperò che non avesse imboccato un’altra via. Camminò per quasi dieci minuti e, quando ormai era sul punto di farsi prendere dal panico e tornare di corsa a casa, buttare giù dalla poltrona suo fratello e mettere in piedi, se necessario, una battuta di ricerca, un abbaio la riportò con i piedi per terra. Si voltò e lo vide scodinzolare allegro tra le gambe di un ragazzo, che stava seduto sugli scalini d’entrata di un palazzo.
“Hunter! Oh! Meno male!” si lasciò sfuggire andando verso il cane con un sorriso che le illuminava il volto delicato e regolare. Il ragazzo si alzò in piedi, era almeno dieci centimetri più alto di Anna che di certo non era una nanetta da giardino con il suo metro e settanta. Indossava una giacca da motociclista nera – con i tipici rinforzi sui gomiti e la conchiglia sulla schiena – sopra una maglietta grigia scura e un paio di jeans blu denim che ricadevano morbidi sulle gambe magre. Aveva capelli castani e lisci che arrivavano appena a sfiorare le spalle e bellissimi occhi verde smeraldo. Iridi di quel colore Anna le aveva viste solo una volta: li aveva una bambina conosciuta in colonia ed erano il normale corollario, quasi scontato, di una carnagione lentigginosa e di una capigliatura rossastra; mai aveva notato occhi di quel colore accompagnare capelli scuri. Quando arrivò di fronte a lei, il ragazzo spostò i capelli tirandoli indietro con la mano sinistra come se qualcosa lo infastidisse profondamente, chiuse gli occhi e senza guardarla le lanciò il guinzaglio. Anna lo prese al volo, troppo contenta per dare importanza al gesto di malcelato fastidio, ma poi il ragazzo le voltò le spalle e sparì dietro il portone senza dire nulla.
Anna rimase sbigottita per qualche istante, sconvolta a dir poco dall'atteggiamento di sufficienza e dalla maleducazione del ragazzo. Non si usava più salutare le persone? E poi perché tanta ostilità? Non le aveva dato il tempo neppure di ringraziarlo… che arrogante, spocchioso! Distratta da una rabbia crescente, non si rese conto che Hunter tirava, guaendo, in direzione del portone sbarrato. Quando si voltò e capì che il cane si lamentava cercando quel ragazzo, furiosa avvampò in viso e strinse le labbra in una smorfia di disgusto. “Andiamo Hunter! Vieni, brutto infame!” Ti pareva che il tipico misantropo non fosse come San Francesco?!
***
La mattina successiva, Anna si alzò dal letto con una faccia molto simile a quella di Nosferatu. Aveva passato tutta la notte a sognare che Hunter scappava lungo un’infinita scala a chiocciola alla fine della quale c’era una porta dove, in piedi con aria di sfida, il tipo della sera prima lasciava entrare il cane e la chiudeva fuori senza degnarla di uno sguardo. Entrò in cucina, trascinando le ciabatte viola con dei teschi neri ricamati e salutò svogliatamente, l’aroma del caffè le riempì le narici. Il fratello, che fino a un minuto prima stava leggendo il giornale, alzò lo sguardo e sobbalzò: “E che è!”
“Ma che vuoi idiota?” ringhiò Anna mentre si riscaldava il latte.
“Niente, niente, è che stamattina Sadako di The Ring ti fa un baffo! Sei veramente sfatta…”
“Pensa a quella facciaccia da nerd che ti ritrovi che è meglio.”
“Ah, l’armonia famigliare!” li interruppe, entrando in cucina ridendo, un omone dai capelli neri a spazzola. Era alto, robusto e aveva le mani grandi e callose. Un’abbronzatura pronunciata rendeva le rughe d’espressione ancora più evidenti. Si sedette capotavola e sorrise ad Anna che si era avvicinata per dargli un bacio.
“Buongiorno Papà! Hai generato un imbecille.”
“Eh, no cara! A me l’intelligenza e a te la bellezza!” ribatté pronto il fratello.
“Basta con queste stupidaggini! Su, fate colazione e dritti a scuola!”
I due fratelli alzarono gli occhi rispettivamente dal giornale e dal latte e all’unisono risposero: “Papà, andiamo all’Università, non a scuola.”
“Eh, che fiscali! Muovetevi o perderete il treno! Vi porto io prima di andare in cantiere.”
Anna filò in camera a cambiarsi e a cercare di camuffare le occhiaie nere. Che bello! Toccano le ginocchia, pensò applicando il correttore. Quando uscì dalla stanza, dopo che il fratello le aveva urlato più volte di muovere il culo, indossava jeans chiari a sigaretta, infilati in un paio di anfibi militari con la punta rinforzata, un maglione verde bottiglia con lo scollo a V e una corta giacca di pelle nera. I lunghi capelli di pece ricadevano morbidi lungo la schiena, in netto contrasto con la pelle diafana del viso e con i grandi occhi ambrati.
“Je l’avemo fatta!” ringhiò il fratello precedendola fuori dall’appartamento.
Giunti alla stazione, Anna scese dalla macchina e superò suo fratello che si era fermato a parlare con un gruppo di amici. Si diresse al binario 2 da dove, ogni mattina o quasi, prendeva il treno che l’avrebbe portata a La Sapienza. Anna viveva in un paese alle porte di Roma e per andare all'università era costretta a prendere il treno che, dopo quasi un'ora, la lasciava alla Stazione Termini, da dove raggiungeva, a piedi, la Facoltà. Per questo se la prima lezione era alle nove, il treno delle sette era l’unico che le permetteva di giungere a destinazione in tempo.
Sul binario, l’attendeva una ragazza castana e riccia che stringeva in mano una cartellina viola. Marina amava molto, troppo, i colori accesi e li univa tra loro, a volte, in maniera discutibile. Il fratello di Anna sosteneva che neanche buttandosi a caso nell’armadio avrebbe potuto far di peggio. Quella mattina, in effetti, anche Anna aveva dei dubbi in proposito. La giovane amica indossava un paio di leggings, al ginocchio, rosa shocking sotto a un paio di pantaloncini di jeans blu scuro, una maglia color giallo canarino e, tanto per non farsi mancare nulla, uno smanicato verde acido in pendant (e a questo punto sarebbe stato meglio non lo fosse) con un paio di ballerine.
“Buongiorno! Ammazza che brutta faccia!”
“Ma che vi siete messi tutti d’accordo questa mattina?”
“Ahahah… allora non sono l’unica a essersene accorta! È stato quel simpaticone del tuo fratellino a renderti tanto socievole, immagino.”
“Lascia stare, ho avuto una nottata d’inferno…”
“Capito, non infierisco! Senti, non è che, per caso, hai gli appunti della scorsa lezione di spagnolo? Io devo averli lasciati a casa, qui nella cartellina non ci sono, porcaccia miseria…”
“Sì, sì, tranquilla, appena arriva il treno te li passo! Tanto questa mattina non ripasso, se il prof mi chiama inventerò qualcosa, in trecento persone, mica chiamerà proprio me?”
“Bè, dovrebbe dire proprio sfiga, ma non mi va di rischiare.” Marina era oggettivamente una secchiona. Media del trenta. Esami in regola. Lezioni sempre preparate in anticipo. Il tutto con un livello di meticolosità che si avvicinava pericolosamente all’ossessione maniacale. Per Anna, però, era un punto di riferimento e anche un’ottima compagna di corso, con la quale condivideva l’atteggiamento ossessivo compulsivo pre-esame e tutta un’altra serie di piccole manie.
Alle sette e qualche minuto, con i soliti dieci minuti di ritardo, arrivò il treno e iniziò la dura lotta alla ricerca di posti a sedere. I treni dei pendolari, si sa, sono carri bestiame, per cui solo una dose eccessiva di fortuna può evitarti di fare il viaggio spiaccicata addosso a un estraneo al quale magari puzza anche un po’ il fiato già all’alba. Difatti quella mattina solo Marina, tra una gomitata e un rapido balzo in avanti, aveva trovato posto a sedere, per cui si caricò sulle ginocchia la borsa di jeans di Anna e prese a guardare dentro alla ricerca degli appunti da ripassare. Anna rimase in piedi davanti a lei, cercando di mantenere lo spazio vitale minimo per respirare mentre una fiumana di gente la superava spintonandola. Tutti convinti che magari, qualche vagone più in là, la situazione sarebbe stata più vivibile. Anna li guardava passare e provava quasi compassione, poveri illusi. Sette anni da pendolare (cinque di liceo e due di università) le avevano dato la certezza che, alle sette di mattina, anche girando per tutto il treno, se il posto non si accalappiava nei primi trenta secondi, tanto valeva combattere stoicamente per non essere schiacciati dalla gente che spingeva per salire, invece di camminare a vuoto. Aveva inoltre scoperto che conveniva rimanere nello spazio tra una fila di posti e l’altra. Per quanto la gente si stringesse, era sempre meglio rimanere lì che nell’atrio perché, dopo le prime tre fermate, vicino alle porte si correva veramente il rischio di morire soffocati.
Quando anche l’ultimo illuso la superò, piantandole involontariamente un ombrello nel fianco sinistro, Anna prese a guardare il panorama all’esterno; era veramente distrutta quella mattina. Se chiudeva gli occhi, le appariva ancora la faccia di quel ragazzo e si sentiva stupida, totalmente stupida e la cosa la infastidiva. Quel tipo era la quintessenza dell’ignoranza.
L’opinione delle persone aveva sempre troppo peso su Anna. Perché lo sapeva, i gesti di quel ragazzo erano una neanche tanto velata critica a lei e al modo in cui si occupava di Hunter. Anna non amava le critiche, non sapeva accettarle e non voleva accettarle, tanto meno da uno che neanche conosceva. Quello era il solito bulletto con la moto, che si credeva perfetto, chi sa chi gliela dava a quel tipo tutta quella sicurezza?
“Anna! È ora di scendere! Siamo a Termini.”
Anna guardò interdetta Marina per un istante, poi afferrò la borsa di jeans e annuendo scese dal treno.
“Oggi sei proprio su un altro universo, eh?”
“Scusami, ma ho un po’ di mal di testa! Idi scatto la bocca: il tipo la stava davvero fissando con aria interdetta.
eri mi è successa una cosa strana. Praticamente, portando a spasso Hunter, mi è sfuggito e l’ho ritrovato, qualche isolato più in là, con un ragazzo che mi ha ridato il guinzaglio con un’aria di sufficienza che gli camminava cinque metri avanti! Senza dire una parola. Gli mancava solo un cartello con scritto: ‘Padrona dell’anno’.”
“Bè, vuoi dargli torto?! Anna, quel cane segue solo tua madre. Per lui sei più o meno una semi-sconosciuta che qualche volta lo porta a spasso! Te lo perdi ogni due giorni.”
“Ho capito, ma quel tipo non lo sa! Non hai idea di che espressione mi ha rifilato! Sembrava nauseato e poi il minuto dopo è sparito dentro casa senza calcolarmi.”
“Non è che hai beccato un animalista convinto?”
“Macché! Ho beccato lo stronzo di turno!”
Entrate nella Città Universitaria, si diressero verso la facoltà di Lettere e Filosofia o meglio l’ex Facoltà di Lettere e Filosofia, ormai da qualche anno smembrata in Studi Orientali, Scienze Umanistiche e Lettere e Filosofia. Anna e Marina erano entrambe iscritte a Scienze Umanistiche ed entrambe studiavano per diventare interpreti. Anna amava la Spagna e adorava, a dir poco, la lingua spagnola che aveva già studiato per due anni al liceo linguistico, dove si era diplomata con un dignitosissimo 98/100.
La scelta della facoltà era stata scontata per lei, nessuna esitazione. Voleva fare l’interprete a ogni costo e ci sarebbe riuscita, punto. Si sedettero nell’aula di Lettorato Spagnolo e attesero che la lezione iniziasse. Anna tirò fuori le penne colorate e fece vagare lo sguardo nell’aula 1, la più grande dell’edificio, fatta ad anfiteatro e soprattutto l’unica che riusciva a ospitare gli studenti del primo e secondo anno.
L’aula era gonfia e i suoi compagni, dalle facce assonnate, si scambiavano appunti o parlavano del più e del meno, in un brusio crescente che riempiva l’aria leggermente viziata della stanza. Una ragazza poco distante stava facendo la cronaca dettagliata di un’uscita con un tipo e si dilungava in particolari che Anna avrebbe preferito non ascoltare. Un altro ragazzo commentava i risultati dell’ultima partita di serie A e c’era persino una tipa che stava facendo le carte a una sua amica. Anna fece un leggero sorriso e volse lo sguardo all’orologio. Erano le 8:55, strano, il professore di spagnolo arrivava sempre in anticipo, metteva la borsa sulla cattedra e poi si andava a prendere un caffè alle macchinette appena fuori dall’aula.
Anna si aspettava di vedere apparire il basso e barbuto professore di spagnolo sulla porta di sinistra da un momento all’altro, ma invece apparve un ragazzo con la giacca di pelle da motociclista in mano, il casco nell’altra.
“E che ci fa questo qui?!”
Marina, concentrata fino a quel momento in una discussione riguardante la difficoltà dell’utilizzo delle preposizioni spagnole con una vicina, si girò di scatto. “Chi?”
“Quello con la giacca da motociclista.”
“Ma che scherzi? Guarda che è un mese che non manca a una lezione.”
“Eh sì, chi se lo dimentica uno così!” confermò la ragazza accanto a Marina. Anna era allibita, il cretino della sera prima seguiva spagnolo con lei? Lo shock fu così grande che non poté non aprire la bocca, mentre seguiva il ragazzo salire la gradinata per andarsi a sedere in fondo, da solo, nell’ultima fila. “Ma, ma io non l’ho mai visto!”
“Bè, che tu dorma è un fatto risaputo. Ma perché, chi è?”
“È il cretino di ieri sera.”
“Ma dai! Mica me lo avevi detto che era un figo! Comunque io chiuderei la bocca se fossi in te perché ti sta guardando…” Anna chiuse di scatto la bocca: il tipo la stava davvero fissando con aria interdetta.
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Marco “Frullo” Frullanti –
“Un libro che va oltre le apparenze…un libro che legge nei cuori delle persone…un libro che si posa delicatamente sulla nostra anima…un libro da leggere.”
Recensione su “Libri – Il nostro angolo di Paradiso”
Marco “Frullo” Frullanti –
“Quando il romance e il fantasy si incrociano, spesso ne viene fuori un abile racconto per giovani che incuriosisce e appassiona. Forse non è per tutti così o forse non tutti i romanzi danno lo stesso risultato. Ecco perché leggere Come vento sulla pelle di Elisabetta Tirabassi mi è piaciuto: nonostante io non sia proprio un’amante del fantasy in sé, la combinazione creata dalla scrittrice è perfetta.”
Recensione su “La rossa e la blu”
Marco “Frullo” Frullanti –
“Un romanzo in cui la trama si evolve sotto i vostri occhi in percorsi imprevedibili, in un crescendo di scoperte e di emozioni.” – Recensione su “L’ortica