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La locanda era spoglia, a malapena rischiarata dalle luci di vecchie candele consunte. La polvere del vicolo, attraverso i battenti male accostati, scivolava sul pavimento in pigri mulinelli. Un silenzio grave aleggiava fra le panche e i tappeti lisi: persino gli ultimi ubriaconi tacevano, gli sguardi spenti e le membra troppo pesanti per tirarsi in piedi e tornare a casa. La notte era scesa da un pezzo sui quartieri nuovi, zittendo baracche e botteghe per lasciare il posto a traffici muti e sconvenienti.
In un angolo quieto, ben lontano dal fetore degli altri avventori, s’attardava un capannello d’uomini dalla pelle scura: nonostante i caftani modesti, una persona scaltra avrebbe potuto riconoscere in essi dignità e riserbo, qualità rare in quella parte della città.
Il principe Emeka sedeva in silenzio, lo sguardo fisso sulla coppa quasi vuota. Accanto a lui, due dei suoi migliori soldati fingevano di giocare ai dadi senza troppo interesse. Il loro signore non aveva fretta: sapeva di essere in anticipo, pur essendo da tempo passata la mezzanotte.
Era stato lui stesso a chiedere che l’incontro avvenisse a un’ora tarda, in una taverna da quattro soldi. L’attesa avrebbe potuto rivelarsi ancora lunga.
Per fortuna, non fu così.
Quando fecero il loro ingresso, Emeka li riconobbe all’istante. E come ingannarsi? Componevano di certo un quartetto inusuale: la prima a entrare fu una donna dall’espressione torva, infagottata in stracci scuri che coprivano a stento il profilo di un’armatura di cuoio; la seguiva un guerriero dagli occhi a mandorla, con i capelli neri lucidi d’olio. Ancora dietro veniva una ragazza minuta e bionda, avvolta in un mantello alla moda romana; chiudeva la fila un giovane non ancora ventenne, sottile e dinoccolato. Tutti loro portavano le armi al fianco, bene in vista, ma Emeka non dubitava che ne nascondessero altre sotto i mantelli.
Il principe non diede segno di riconoscerli, ma neppure protestò quando la comandante della brigata gli sedette davanti in silenzio, le gambe incrociate e il volto accigliato. I tre compagni la imitarono senza una parola di saluto. L’oste fece per avvicinarsi in cerca di ordinazioni ma, nell’adocchiare quelle figure familiari, tornò sui propri passi e quasi si nascose dietro il bancone, d’un tratto concentrato su coppe e stoviglie.
«Grazie per aver accettato il mio invito» esordì l’uomo con voce bassa e ferma. «Sono il principe Emeka, del regno di Ifè.»
Il guerriero dagli occhi a mandarla lo rimirò per qualche istante. «Mai sentito nominare.»
«Non mi sorprende» ammise Emeka. «La mia terra è molto lontana, nel cuore dell’Africa. Ho fatto un gran viaggio per arrivare fin qui, e uno ancora più lungo mi attende. Uno per il quale sono alla ricerca di alleati fidati.»
La donna che li guidava inclinò il capo dai capelli arruffati e gli piantò addosso due occhi scuri, cerchiati da un’ombra insonne. «Dov’è che devi andare?»
«Nel Regno di Gupta. Nella provincia di Orissa, per la precisione. Sono certo che conoscerai quella zona, Naishada.»
Nel sentirsi chiamare per nome, la guerriera corrucciò la fronte, infastidita dall’improvvisa confidenza. «Il mio paese non ha segreti per me ma, se ti serve una guida, un servo ti costerà meno. O puoi aggregarti a una carovana di mercanti.» Non v’era gentilezza nel suo tono, ruvido come la sabbia lungo il fiume Zeravšan.
«Non viaggerò assieme a gente di poco valore» ribatté lui. «Non posso prevedere quali ostacoli incontrerò lungo la via, e non intendo dare nell’occhio facendomi scortare da un contingente dei miei soldati. Mi serviranno pochi uomini, di tempra eccezionale e di grande esperienza.»
«L’esperienza si paga, principe straniero» ribatté la bionda con un sorriso sfacciato.
«Non lasciatevi ingannare dal mio travestimento: non avrò problemi a elargire il giusto compenso.» Emeka dischiuse le mani in un gesto condiscendente. «Ma prima devo essere certo che facciate al caso mio. Per cominciare, potreste presentarvi e dirmi i vostri talenti.»
«Sai già il mio nome» lo rimbeccò Naishada. «E non penso t’importi davvero quello dei miei uomini. Comunque, se proprio hai voglia di riverenze, lei è Calysta. Viene da Costantinopoli, è abile coi coltelli. Yargai è un guerriero e un assassino: è cresciuto nella steppa e saprebbe cavalcare anche bendato. Il ragazzo invece è Adur. È nato fra questi vicoli. Sa tirare di balestra e ha il senso dell’orientamento d’un gatto selvatico. Ti basta?»
«Non direi.» La fronte d’ebano del principe s’increspò. «C’è un motivo se ho cercato proprio voi. Avete una fama ben precisa, qui a Samarcanda. C’è gente che, dopo qualche bicchiere, spergiura d’avervi visto combattere contro certe… creature. Non parlo di predoni o mercenari, ma esseri che poco hanno di umano.» L’uomo bevve l’ultimo sorso dalla coppa. «È così?»
Naishada rimase in silenzio per alcuni istanti, squadrandolo. «È così.»
Emeka sostenne il suo sguardo.
Lei parve comprendere la sua muta richiesta. «Abbiamo combattuto assieme alla guardia del Marzban per liberare la via carovaniera da alcuni ghoul che assalivano i viaggiatori» spiegò, sputando via le parole come fossero intrise di veleno. «Abbiamo abbattuto un demone-cinghiale nelle terre di Serendib. Potrei andare avanti per un pezzo. L’ultimo lavoro è stato uccidere uno shâd'havâr su ordine di Re Chandragupta. Pare che la bestia funestasse le foreste dai tempi di Iskander il Conquistatore.»
«Notevole.» Il viso di Emeka non dimostrava tuttavia alcun entusiasmo. «E ditemi: avete mai avuto a che vedere coi demoni dei cristiani, che posseggono le persone e donano forza sovraumana?»
Yargai inarcò le folte sopracciglia nere. «Che te ne importa? Non mi pari un prete.»
«L’apparenza inganna. Non sono un sacerdote di Cristo, ma sono comunque un uomo di fede.»
Il più giovane della compagnia si unì alla conversazione, sulla faccia un’espressione diffidente. «E in che cosa credi?»
«È difficile da spiegare.»
«Tu provaci» sibilò Naishada.
«Se proprio ci tenete.» Gli occhi del gruppo furono su di lui, e persino i suoi soldati gli rivolsero uno sguardo interessato. Non erano questioni che Emeka usasse trattare con gente al di sotto del suo rango, ma in quel frangente non aveva scelta. «Ebbene, io so che ogni popolo venera i suoi dei, e teme diverse entità e spiriti. Penso che tutti abbiano ragione, e assieme siano in errore.»
Il guerriero della steppa si grattò la testa. «Quel che dici non ha senso.»
«Forse, a un orecchio poco attento» concordò Emeka. «Ma, se presterete attenzione, sono sicuro che capirete. Naishada, la tua gente venera il saggio Visnu e Shiva, il Distruttore.» La donna lo degnò appena d’un noncurante assenso, e il principe proseguì. «Yargai, immagino tu sia cresciuto onorando Tengri, il Signore del Cielo, mentre il ragazzo avrà sentito parlare degli insegnamenti di Zoroastro. E Calysta credo conosca le storie del Cristo. Quanto a me, da giovane avevo fede in un grande dio, e negli spiriti che dominava. Ma poi è accaduto… qualcosa.» Di fronte alle espressioni interrogative dei suoi ascoltatori, Emeka trattenne un sorriso. Erano così ignoranti. «Ho iniziato a studiare le storie di altri paesi, ho viaggiato per il mondo e ho letto i libri sacri di molte genti, scoprendo che qualcosa li accomuna. Qualcosa che è scritto nell’anima di tutti i popoli della terra.»
Un silenzio ombroso accolse il suo discorso.
«Vai forte, a chiacchiere» commentò Calysta dopo qualche istante.
Naishada sbuffò. «Che significa questa predica? Sei uno stregone?» Pronunciò l’ultima parola arricciando le labbra, senza nascondere il disgusto.
«Un sacerdote» la corresse. «Appartengo a un ordine che non ha nome né insegne. Un ordine segreto.»
«E che dovrebbe mai farsene, questo prodigioso ordine segreto, di quattro mercenari come noi?» lo canzonò Yargai.
«Non vi sto chiedendo imprese eroiche. Soltanto di essere la mia scorta.» Emeka tornò a rivolgersi alla comandante. «Come vi dicevo, potete chiedere qualsiasi prezzo. Ma prima dovete aver chiaro che sto cercando qualcosa, e voi dovrete giurare di restare al mio fianco fintanto che quel che voglio non sarà nelle mie mani.» Un’ombra rabbuiò il volto della donna. «C’è un mausoleo, nascosto fra le montagne a nord di Orissa» proseguì. «Un luogo sacro. Creature ben più pericolose di orsi e tigri potrebbero proteggerlo.»
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