“Aeroporti” – Elena Chiara Mitrani

“Aeroporti” – Elena Chiara Mitrani

3.49

“You can never ever leave, without leaving a piece of youth – and our lives are forever changed, we will never be the same, the more you change the less you feel” (Tonight, Tonight – The Smashing Pumpkins)

Pagine: 186

Formato: Ebook (Epub, Pdf, Mobi)

Genere: Romanzo Contemporaneo

Copertina a cura di Barbara Crepaldi (blog personale)

Estratto gratuito

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Descrizione

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                                                                                                                                                                                                         Martino, Irene, Davide, Ginevra e Valerio formano una di quelle compagnie di amici inseparabili, il cui legame sembra destinato a durare per sempre . Eppure, un giorno Martino decide di partire per l’Erasmus. E tutto quello che teneva insieme il gruppo finisce lentamente ma inesorabilmente per spezzarsi.
Dopo l’università, i vecchi amici si ritrovano a fare lavori diversi da quelli che speravano,  incrociano le proprie storie con quelle di nuove persone, ma continuano a provare nostalgia verso un passato che non potrà mai tornare. Il destino sembra però progressivamente ricreare una serie di collegamenti tra loro; e se i ragazzi si incontrassero di nuovo?
Aeroporti ci racconta i sogni e le aspirazioni di un gruppo di ventenni e i compromessi che devono accettare, ci descrive come le persone crescendo cambiano, perdono di vista quello che un tempo era per loro più prezioso ma non dimenticano mai davvero i loro compagni di strada.

Informazioni aggiuntive

Anteprima

Aeroplani di carta

A loro piaceva, scegliere l’ultima fila in fondo, in aula magna, e tirare gli aeroplanini di carta in direzione delle file sottostanti. Martino cercava sempre di prendere di mira le ragazze più carine, che solitamente erano anche le più antipatiche. Aveva ancora i capelli lunghi; il primo giorno dell’ultimo anno di scuola si era presentato con i dreadlocks, sicuro che così avrebbe avuto più successo con le donne e sarebbe sembrato più rock and roll. E così era stato, in effetti, ma Alice, la sua ragazza storica, non era stata molto contenta.
Martino dunque era un rasta, con un testone di capelli enorme, le gambe magre e le spalle strette. Andava per i diciannove anni e riteneva di essere ormai un uomo. La maggior parte dei suoi compagni del liceo lo ricorda ancora così com’era nella foto di classe dell’anno della maturità: jeans neri un po’ sdruciti, una di quelle felpe anni ’70 con la zip, probabilmente comprata ai mercatini degli alternativi, kefia al collo, tantissimi capelli, aria seria, sguardo profondo. Molti pensavano che la sua fosse solo una posa.
In quella foto, accanto a lui sedevano quelli che lui chiamava «il mio chitarrista» e «il mio batterista» oppure, a volte, «i miei amici».
Ormai mancava solo una settimana alla sua partenza e, mentre girava per la sua stanza chiedendosi quali fossero le cose assolutamente fondamentali da portare con sé, si era soffermato su quell’immagine. Ci si era avvicinato, cercando di guardare negli occhi quel se stesso di circa due anni prima. Forse avrebbe dovuto portare con sé quei ricordi. O forse no. In fondo, ormai il liceo era finito da un pezzo. Lo ricordava come un periodo della propria vita particolarmente colorato e relativamente libero. Lo studio, ancora, non era vero studio, ma più che altro una rincorsa all’ultimo ripasso notturno, una minuscola pallina di carta con le risposte giuste lanciata rasoterra tra i banchi.
L’amicizia, era la compagnia osmotica e sfacciata di persone che, anche se la cosa lo metteva un po’ in soggezione, avrebbe potuto chiamare fratelli. Era un rientro in macchina senza navigatore a patente appena presa. Ed era una spalla per drammi sentimentali provvisori, ma esplosivi, nei tempi in cui, per un litigio di un pomeriggio, potevi stare ore ed ore ad aspettare sotto la pioggia.
Era finito da un pezzo il periodo in cui a Martino piaceva lanciare quegli aeroplani di carta più che altro per farsi notare, e dunque aveva deciso di prendere questo viaggio come una scusa per crescere, finalmente. Staccarsi da quei ricordi fatti ancora di interrogazioni, autogestioni e foto di classe. Eppure gli sarebbe mancata, quell‘immagine appesa sopra il letto. Anche quella notte, come sempre, fu una delle ultime cose che Martino vide scomparire, quando spense la luce.

Valerio chiuse l’album e lo ripose nel cassetto insieme agli altri. Continuare a guardare quelle vecchie foto non aiutava. Ormai erano passati quasi tre anni dalla fine del liceo, ma continuava a sentire che c’era qualcosa che non andava. Non essere più un ragazzino, doversi arrendere all’idea che presto nella vita avrebbe avuto preoccupazioni come il lavoro e la famiglia, pensare che non avrebbe più potuto suonare la batteria al pomeriggio e guardare film fino a tardi, lo rendeva triste. Talmente triste che, ormai da un po’, aveva preso l’abitudine di passare le serate a sfogliare i suoi ricordi, con delicatezza e lentezza, estraendoli dalle scatole che aveva riposto, anno dopo anno, nei cassetti della propria scrivania. Nell’album di foto dell’ultimo anno del liceo, infilato proprio lì, nella pagina in cui c’era la foto di classe, aveva trovato un foglio a quadretti piegato a formare un aeroplanino di carta.
L’aveva fissato intenerito, anche se allora, nel momento in cui quell’aeroplanino, per la prima ed ultima volta nella sua vita, era stato lanciato in aria, gli era sembrato solo l’ennesima prova della stupidità di Martino, l’amico di sempre. Lui e Davide si erano divertiti, durante l’assemblea d’istituto, a creare gli aeroplanini di carta e scagliarli giù, dai posti più in alto dell’aula magna, verso il basso. Era un modo di combattere la noia da cui Valerio, come al solito, si era freddamente dissociato. Era una cosa da ragazzini, non era da lui.
Eppure, mentre stavano uscendo dall’aula magna per tornare in classe, quella mattina, Valerio non aveva saputo resistere alla tentazione di prenderselo, quell’aeroplanino, che aveva ritrovato, ormai senza vita, caduto a terra. «Lo tengo per ricordo», aveva pensato. E questo gli era accaduto tantissime volte. Con le cose, ma anche con le persone.
A volte gli sembrava di essere come quel personaggio di Ogni cosa è illuminata di Jonathan Safran Foer. In quel libro, e dunque anche nel successivo film, c’era un protagonista pazzo che conservava tutte le cose. Le conservava in delle bustine, con sopra scritto che cos’erano e l’anno, e dopo le appendeva su un muro che ogni tanto si fermava a contemplare per ricostruire la storia della propria vita. Valerio, al di là dell’esagerazione del libro e del film, era esattamente così. Ma non avrebbe mai messo davvero tutti i suoi ricordi su un muro. Per lui, si trattava più che altro del tipo di cose che ad un certo punto finiscono dentro ad una scatola, perché le cose cambiano e i mondi finiscono. E quella scatola era diventata l’ultima che mai avrebbe aperto, ma la prima che avrebbe cercato se, per esempio, la sua casa fosse andata a fuoco. Sarebbe corso a prenderla, l’avrebbe tenuta in braccio come si farebbe con un neonato, scappando dalle fiamme. O dall’alluvione, o dalle nebbie, come era più appropriato dato il posto in cui viveva. La nebbia era il tratto distintivo costante di tutte le loro serate d’inverno. Ma quell’inverno, non era come gli altri.
Valerio era preoccupato. «Tra una settimana parte Martino» pensò. Gli sembrava incredibile. Martino se ne sarebbe andato e con lui, ne era sicuro, il loro gruppo di amici si sarebbe sfaldato. Era già da troppo tempo che le cose non erano più come prima. Al liceo, tutto era diverso. Ma, ormai… Valerio spense la luce pensando che avrebbe dovuto cogliere l’occasione per andare avanti e crescere da solo, come avrebbero fatto tutti. Cercava di immaginare cosa sarebbero diventati, gli uni senza gli altri. Inspiegabilmente, gli sembrava di poter essere in grado di prevedere, con un grado di certezza piuttosto elevato, che ne sarebbe stato di Martino, Davide e le ragazze. Per Martino in particolare, era sicuro che prima o poi si sarebbe tagliato i dreadlocks e avrebbe fatto uno di quei lavori in cui ci si mette la cravatta per andare in ufficio ogni giorno. Pensava che, probabilmente, sarebbero stati ancora amici, anche se, quando invece pensava a che ne sarebbe stato di se stesso, vedeva solo nebbia.
Le notti insonni, il ritorno di Godot ed il paese in cui non pioveva mai

Ginevra sentì che qualcuno le stava toccando i capelli e aprì gli occhi. Si era addormentata ancora con gli auricolari nelle orecchie. E le cuffiette avevano perso i loro piccoli rivestimenti di spugna nera, la mattina seguente avrebbe dovuto cercarli tra le lenzuola. Forse avrebbe trovato anche l’orecchino che si era accorta di aver perso pochi giorni prima. Il filo nero delle cuffie si era perso tra le pieghe della sua camicia da notte. Lei vedeva tutto in tonalità di bianco sporco e grigio scuro, mentre i suoi occhi si abituavano al buio, come quelli di un gatto. Si voltò e si mise a sedere sul letto.
Tutte le notti la stessa storia.
«Gi, non dormo. Ti racconto una storia» disse una voce impastata.
«No, sono le tre – rispose lei, guardando i numeri verdi e luminosi della radiosveglia – E io voglio dormire. Me l’hai già raccontata ieri la tua storia. E l’altro ieri e il giorno prima dell’altro ieri. Adesso basta. Stanotte no. Voglio dormire».
«Gi, non dormo. Ti racconto una storia».
Ginevra inspirò profondamente, prese le mani del fratello tra le proprie, e lo fissò negli occhi vacui. Gli scostò i capelli dal viso.
«Hai freddo?» gli chiese poi.
«Allora, c’ è un paese…» iniziò a raccontare Flavio.
«No, ti ho chiesto se hai freddo. Perché non sei in camera tua?»
«Non parlare, Gi. Altrimenti io devo ricominciare la storia tutta da capo. Allora, c’è un paese. E questo paese è magico. Infatti…»
«Flavio, basta dai. Se ti sei svegliato perché hai freddo ti prendo una coperta dall’armadio, così puoi tornare a dormire».
«Ecco, adesso devo ricominciare di nuovo la storia dall’inizio, Gi. Allora, c’è un paese. E questo paese è magico. Infatti in questo paese non piove mai». disse Flavio. Poi sorrise.
«Finito?» chiede Ginevra.
«Sì» sussurrò lui. Poi si sporse sul suo letto, l’abbracciò. E le diede un bacio tutto bagnato di saliva sulla guancia.
«Torna a dormire. – lo salutò lei, staccandosi dal suo abbraccio – Buonanotte».
«Buonanotte».

«Devo arrivare almeno alla fine del quindicesimo capitolo» pensava Davide tra sé e sé. Di giorno, non aveva mai tempo per studiare. Normalmente tornava dall’università, poi dormiva un po’. Alle quattro e mezza si svegliava e iniziava a suonare la chitarra. Poi dava ripetizioni a un bambino obeso con le dita cicciotte. Gli spiegava matematica e fisica per otto euro all’ora. Poi usciva per le prove con i suoi amici del gruppo. Dopo, a volte, si fermava a prendere una birra e le patatine fritte con loro nel pub dietro la sala prove. Poi tornava a casa con la chitarra in spalla e mangiava un pezzo di pizza surgelata, trascinandosi in cucina con le ciabatte grigie sdrucite. Suo padre rientrava sempre molto tardi, non mangiavano mai insieme. E, da quando la mamma se n’era andata, non c’era mai niente di buono da mangiare. Davide, per sé solo, non aveva voglia di cucinare. Mangiava giusto una o due fette di pizza surgelata guardando la tivù. Verso le undici, rientrava nella propria camera e accendeva il faretto sopra la scrivania, che lo illuminava in un piccolo cono di luce. Qualche volta lasciava il televisore acceso in salotto, per compagnia. Non lo avrebbe mai ammesso, ma la notte tardi non gli piaceva stare in casa da solo. Si sentiva inquieto. Apriva i libri e iniziava a sottolineare e a prendere appunti sui margini. Con la mano sinistra, perché Davide era mancino ed era contento che si dicesse che la sinistra è la mano del diavolo. D’improvviso, gli cadde l’occhio su una pila di libri già letti e appoggiati a terra in un angolo, e si sentì vecchio. Si ricordò di quando stava preparando la maturità e stava scrivendo la sua tesina sull’assurdo. Aveva pensato, per tre notti di fila, a come inserirci «Aspettando Godot» di Samuel Beckett. Ora leggeva Schopenhauer, segnando con delle ics i capitoli che aveva già trattato. «Devo arrivare almeno fino al capitolo quindici», si ripeteva. Era molto tardi, ormai.
Non era lo studio a tenerlo sveglio.
Ad un certo punto, poco prima di giungere al quindicesimo capitolo, Davide sentì un rumore.
La chiave nella porta.
Papà, il suo Godot, era tornato.

«Anche queste pastiglie ormai non hanno più effetto» pensava Irene, girandosi nel letto. Farmaci chimici con una riga in mezzo. Per dividerle a metà. Ma lei, consapevole che la sua insonnia era indomabile, ne ingoiava una intera, tutte le sere, prima di coricarsi. Dovevano garantirle otto ore di sonno. Ma le prendeva che era già mezzanotte, perché la sera aveva sempre tante cose da fare, finire di studiare, forse leggere o vedere un film, e poi scrivere al computer. Alla mattina alle sei e mezza il suono della sveglia la chiamava come un carillon malefico e lei iniziava la giornata con già un’ora e mezza di sonno arretrato. A lezione, restava intontita, gli occhi in fissa. La cosa che avrebbe avuto più voglia di fare sarebbe stata appoggiare la testa sul banco e mettersi a dormire. Si riprometteva ogni giorno che sarebbe andata a dormire più presto, che avrebbe cercato di smettere di scrivere e di pensare. Ma ogni sera quel proposito veniva dimenticato. Così, poiché l’idea di passare tutta la notte a guardare il soffitto in compagnia dei suoi fantasmi la terrorizzava, Irene ingoiava la sua panacea con un bicchiere d’acqua del rubinetto e lasciava che il sonno chimico la intontisse come un’anestesia.
Col passare dei mesi, si era resa conto di essere sempre più assuefatta ai farmaci. Quelle pillole che le erano state prescritte dal medico per combattere una semplice insonnia da stress erano ormai diventate una droga. Ma, quel che è peggio, ora che era abituata a prenderle, sembravano non avere più alcun effetto sul suo corpo. Anche con le pastiglie, lei non dormiva più.
Irene alle sei era già sveglia. «So che alle sei e mezza suonerà la sveglia e mi sveglio prima per anticiparla. Sono preoccupata all’idea di non svegliarmi e così mi alzo anche prima di quando dovrei».
Cercò a tentoni il pacchetto di Philip Morris e si accese una sigaretta nel buio. Sedeva per terra ai piedi del letto, quasi tremava dal freddo. La magliettina azzurra con cui dormiva aderiva alla pelle chiara, poco più sopra dell’ombelico. Se si stendeva, le ossa del bacino sporgevano lievemente oltre l’elastico degli slip. Questo era il suo capolavoro di anoressia: una magrezza duramente conquistata.
Si accarezzava il profilo tondo dell’ombelico, con la mano destra, dove teneva la sigaretta. Sentì pizzicare. La brace aveva sfiorato la pelle, lasciando una macchiolina scura sulla pancia tirata come la pelle di un tamburo. Si leccò le dita e massaggiò la bruciatura, pensando che forse si svegliava prima perché aveva paura che quelle pillole la stordissero del tutto, che non la facessero svegliare mai più.

Recensioni

  1. Marco “Frullo” Frullanti

    “Ciò che mi è rimasto a fine lettura, quando ho girato l’ultima pagina, è stato un sapore amaro in bocca, e allo stesso tempo una dolcezza comprensiva, un sospiro bloccato in gola. E tanto, proprio tanto a cui pensare.
    Cosa chiedere di più?” (Recensione a cura di Ilaria Pasqua)

  2. Marco “Frullo” Frullanti

    ” Un libro che ci lascia contenti di averlo letto. E questa non è una cosa da poco, anche se il costo dell’e-book, 3,49 € poco lo è.” (Recensione su Finzioni Magazine)

  3. Marco “Frullo” Frullanti

    “Più pagine si mettono alle spalle, più si vuole sapere cosa riserva ai protagonisti il futuro e se riusciranno a superare tutte le incertezze che li accompagnano nei loro viaggi di vita.”(Recensione su “I Libri di Lo”)

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