“Ehi…oh, primino!” Una gamba infilata in un jeans strappato e un anfibio marrone si erano parati come una sbarra davanti a Giamma. Due ragazzi di età indefinita, ma decisamente più grandi, sedevano sui gradini quasi in mezzo al passaggio: uno aveva una coda di cavallo e lo sguardo perso nella Gazzetta, l’altro i capelli più corti e uno degli incisivi scheggiato. Quest’ultimo era quello che aveva bruscamente interrotto la scalata di Giamma verso la prima superiore.
Se l’era immaginata mille volte quella prima mattina: aveva tentato di prevedere il peggio del peggio, senza considerare nemmeno per un istante la possibilità di fare affidamento sulla protezione di qualche ragazzo più grande che conosceva per ragioni calcistiche o musicali nella vita reale. Ma la scuola era un’altra storia: non è che solo perché sei in confidenza con uno di quarta ti puoi permettere di sentirti esentato da sberleffi e pseudosoprusi, cui nemmeno uno che di certo non passava per essere uno sfigato come Giamma poteva sfuggire. Quindi era con una certa rassegnazione che aveva acceso il motorino quella mattina, già condita da un fresco pungente, per il suo primo giorno di liceo.
C’era un abisso fra la terza media e la prima superiore, e allora papà Mancinelli, per evitare che Giamma ci finisse dentro nel tragitto casa scuola, gli aveva regalato un fiammante F12 Phantom grigio metallizzato. Giamma si era fatto forza quella mattina mettendo in moto, pensando che almeno avrebbe fatto un ingresso al liceo con un minimo di dignità, nulla a che vedere con il povero Ste, accompagnato in macchina da sua mamma fino davanti al cancello: tipo come farsi menare il primo giorno.
Giamma, Ste, Vale e Flors, i reduci della terza F rifluiti in una nuova prima A si erano dati genericamente appuntamento in classe. Ognuno per sé e Dio per tutti. Dani invece era da solo, dall’altra parte della città.
“Oh primino, fai un’opera buona… prendimi un caffè alla macchinetta, corri va…”
Il tono di voce di proprietario della gamba non aveva lasciato spazio a dubbi interpretativi. Giamma aveva afferrato di buon grado le duecento lire che il tipo gli aveva passato: se non altro non avrebbe dovuto pagarglielo lui il caffè.
Primo problema: dove diavolo è la macchinetta?
Giamma aveva varcato la soglia guardandosi intorno alla ricerca di qualche faccia conosciuta o di un cartello che gli indicasse la via. Gli era andata anche meglio: l’oggetto della sua ricerca si trovava proprio davanti a lui nell’atrio accanto alle scale.
Secondo problema: come diavolo si usa una macchinetta del caffè?
Ok, chiaro che non ci voleva un dottorato in astrofisica, ma per uno abituato alla moka già caricata e pronta sul fuoco, quell’insieme di numeri e sfumature di tutto quello che si poteva mischiare e allungare con un po’ di caffè in polvere era assai destabilizzante.
Ragioniamo: con duecento lire il campo di restringe, cioccolata, cappuccino e mocaccino costano 250, e poi comunque il tipo mi ha chiesto solo un caffè, anche se solo è una parola grossa… espresso, ristretto o macchiato?
“E sticazzi…” Aveva detto Giamma sottovoce, mentre si stava immaginando gli occhi impazienti del tipo sulle scale fissi su di lui.
“Oh, hai fatto?”
Terzo problema: una ragazza dai capelli neri legati e arrotolati sulla nuca gli aveva sorriso con educazione e una punta di impazienza.
“Ah, sì quasi…” Aveva risposto Giamma ancora titubante mentre soppesava la moneta che aveva in mano come fosse la sua ultima vita a Super Mario.
“Guarda che è solo una macchinetta del caffè, mai usata prima?”
“Ma io veramente…”
“Dammi.” Lei per fare prima gli aveva preso direttamente la moneta dalla mano.”
“Solitamente si inserisce la moneta qui, vedi? In questo buco. Poi selezioni quello che vuoi… Cosa vuoi?” Lei aveva gli occhi neri, accentuati dall’ eye-liner. Di tutta la spiegazione Giamma non aveva seguito mezza parola. Si era limitato a fissarla imbambolato.
“Ma, sei italiano?” Gli aveva domandato lei ad un certo punto.
Lui si era riavuto di colpo
“Sì… ah, un caffè…”
“Come?”
“E che ne so… me l’ha chiesto quello lì fuori…”
Lei aveva sorriso di nuovo scuotendo la testa.
“Facciamo espresso, va…” Aveva detto lei schiacciando il tasto corrispondente mentre a Giamma sembrava di essere alla ruota di Ok il prezzo è giusto a sperare che uscisse il cento.
“Grazie.”
“Prego, adesso posso prendere anche io un caffè?”
“Certo.”
“Se ti sposti…”
“Ah, ovvio, beh…” Giamma aveva la faccia di chi non sa come dileguarsi se non in silenzio.
“Ciao.”
“Ciao.”
Poi a passo svelto era uscito di nuovo sulle scale dove si stavano assiepando sempre più capannelli, divisi rigorosamente per classe (anche sociale), appartenenza politica, gente che valeva la pena di frequentare, sfigati e, limitatamente alla categoria femminile, fighe e turche, intese come cessi.
“Oh, tieni.” Giamma aveva allungato il bicchierino all’altezza del naso del tipo.
“Ah, grazie… e se lo volevo macchiato?”
Giamma a quel punto aveva allargato le braccia in segno di resa, pronto a ricevere almeno un pugno.
“Si chiede sempre, primino, capito?”
“Ok…” Aveva risposto Giamma come di fronte ad una grande lezione di vita.
“Come ti chiami?” Gli aveva chiesto di colpo l’altro sollevando lo sguardo dalla pagina della serie B.
“Gianmarco.”
“Gianmarco e poi?”
“Mancinelli.”
“Sezione?”
“A.”
“Ah… e che cazzo fai qua a dieci alle otto? Non lo sai che la A inizia le lezioni un quarto d’ora prima e finisce mezz’ora dopo delle altre?”
Giamma era diventato pallido di colpo. Se fosse stato vero avrebbe voluto dire avere inanellato già cinque minuti di ritardo il primo giorno.
“Ma come? Ma sei sicuro? No perché a me avevano detto alle otto?”
“Ma va, la A inizia a un quarto… è sperimentale…”
“È sperimentale…” Aveva confermato quello del caffè dopo aver vuotato il bicchierino.
“E minchia, allora sono in ritardo?”
“Vedi tu.”
“Azz…”
Giamma era corso via con la stessa foga di quando si involava sulla fascia.
“Oh, ma che coglione, ma saranno tutti così quest’anno?” Aveva detto quello con la coda ritornando con lo sguardo alla Gazzetta. Quell’altro aveva semplicemente commentato con un rutto.
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