Articolo a cura di Alessio Filisdeo, autore di vari romanzi Fantasy/Gotici tra cui “Fairfax & Coldwin”

Cosa rende un romanzo davvero speciale?

Cosa rende una storia realmente indimenticabile?

Le risposte potrebbero essere ovvie: i protagonisti, le loro vicissitudini, le sconfitte e i trionfi, gli amori e le delusioni. La crescita interiore.

Eppure, se ci pensiamo bene, esiste un altro elemento, uno di cui spesso non ci importa, non subito, almeno. Lo diamo quasi per scontato, fino a quando non cominciamo ad addentrarci nel racconto. A quel punto, anche a distanza di anni, nel nostro subconscio assoceremo al dato libro non un volto, non un episodio ben preciso, o un nome, ma un intero universo.

La mente, magicamente, ci ripoterà in un’epoca diversa, vicina o lontana, e proveremo nostalgia per una città che forse non abbiamo mai visitato, o che nemmeno esiste. Perché leggere non significa soltanto venire a conoscenza di fantasiosi fatti, ma anche, e soprattutto, calarsi in un mondo diverso dal proprio.

Non mi riferisco alla mera ambientazione, ma a tutto ciò che la compone, dal periodo storico alle comparse che lo popolano.

Spogliato della sua tragica Parigi rivoluzionaria, “I Miserabili” di Hugo avrebbe posseduto la stessa carica emotiva?

Senza la sua Londra vittoriana, il famigerato Sherlock Holmes sarebbe divenuto egualmente iconico?

E che dire del celebre Stephen King, che con le sue opere ha dato vita a uno stato del Maine ricettacolo di orrori, percepito con inquietudine e fascinazione da milioni di lettori in tutto il globo!

Potrei continuare a lungo, ma non credo sia necessario.

Non è un libro, ma la saga di Ritorno al Futuro riesce ad ambientare la stessa (più o meno) storia in tre contesti temporali diversi e non contemporanei, senza annoiare lo spettatore!

Ora, la domanda seguente è: come può uno scrittore rendere credibile (o incredibile) un certo contesto narrativo? Come può, insomma, creare la perfetta illusione in cui far perdere i suoi lettori? E a quali sfide deve andare incontro durante il suo metaforico viaggio?

In questo caso la risposta è tutt’altro che semplice.

Partiamo da ciò che (in teoria) conosciamo meglio, ovvero la nostra contemporaneità.

Noi gente del XXI secolo siamo tipi strani, no? Consumiamo, molto più che in passato, e per ovvi motivi, serie tv, film, programmi audiovisivi e ogni genere di media. Con gli anni siamo arrivati ad elevare allo status di modello alcuni di essi (e non voglio affatto intendere la cosa in ottica negativa, non necessariamente), a imitarli perfino, ma la realtà, la quotidianità, non potrebbe essere più distante dalla realtà.

Quanti di noi, nella vita di ogni giorno, in quelle circostanze, si esprimono come gli attori che amiamo? Quanti di noi, andando a lavoro, o a scuola, si riconoscono nei pensieri, negli stati d’animo, o persino negli abiti che caratterizzano i nostri beniamini?

Molto pochi, azzarderei. Nondimeno, oggi, è quello che noi percepiamo come “autentico”.

Ci siamo assuefatti ai cliché e agli stereotipi e, paradossalmente, li cerchiamo sempre e ovunque.

Ecco quindi che, in stile “tarantiniano”, i dissacranti personaggi dei romanzi metropolitani ci vanno giù pesanti con sarcasmo e imprecazioni, muovendosi tra famose megalopoli dorate e romantiche oppure ciniche e spietate. L’ordinarietà è ridotta a una flebile scala di grigi, e più grottesche ed esacerbate sono le situazioni, più ci paiono verosimili.

Non si tratta, quindi, di “ritrarre la verità”, di riportare gli eventi in scala 1:1, ma di giocare coi luoghi comuni, e di indovinare (sì, proprio indovinare) i gusti del pubblico senza annoiarlo.

Per citare Mark Twain, la verità è più strana della fantasia, perché la fantasia è costretta ad attenersi al probabile, mentre la verità no.

Un discorso estremamente simile potrebbe essere fatto per i romanzi storici, gotici o “d’appendice”.

Qui l’abilità non sta soltanto nel rispettare i desideri del pubblico, nell’appagare un certo tipo di immaginario, ma passa soprattutto per il linguaggio, quello che nei testi moderni si rifà (appunto) al Cinema.

La Bibbia dello scrittore, nei generi di cui sopra, smette di essere Hollywood, e si rivolge a un metro completamente diverso: i Classici (quelli con lettera maiuscola, già).

Personalità come Alexandre Dumas, Tolstoj, Dickens, Jane Austen, Stoker e tanti altri hanno plasmato per secoli la nostra percezione dei tempi andati, anche in questo caso (colpo di scena!) idealizzandola sfrenatamente.

Forse il termine “commerciale”, oggi usato il più delle volte in maniera dispregiativa, non esisteva nell’epoca di quei grand’uomini (e donne), o magari esisteva in un’ottica più positiva e progressista; fatto sta che le loro opere immortali incarnavano, e incarnano tutt’ora, il sopraffino equilibro tra “visione d’autore” e “ruffianeria”. Non dimentichiamo che in quel periodo i “mattoni umanisti da 600 pagine” venivano pubblicati a puntate su riviste di ogni genere, ed era il pubblico, in maniera enormemente più incisiva di oggi, a decretarne il successo o il fallimento, settimana dopo settimana.

Ovviamente i tempi cambiamo, il pubblico anche, ma le idee restano: l’uso del “voi” nei discorsi diretti; la passione per il melodramma; il feticismo per gli aggettivi ricercati; il bon ton; le grandiose città europee infervorate dal patriottismo e i tormentati gentiluomini animati da spirito di sacrificio.

Sono questi (ma non solo) gli elementi, a mio avviso, essenziali per rendere al meglio il genere. Dogmi, se così vogliamo chiamarli, imprescindibili.

Perché?

Perché sono la quintessenza di una dimensione che non consoceremo mai direttamente, una realtà che per quanto misera e ingiusta fosse al di fuori delle ordinate pagine dei feuilleton, rimarrà sempre, per noi romantici, un’era di meravigliose epopee, tanto nel bene quanto nel male.

Sì, lo so, alcuni di voi si aspettavano che avrei parlato del solito “faccio molte ricerche!” o “mesi e mesi di osservazione diretta sul campo!” e “leggere, leggere e ancora leggere!”. Che posso dire? A differenza di milioni di articoli simili do per scontate certe cose, tanto che mancherei di rispetto a me e a voi nell’elencarle ancora una volta (figurarsi costruirci sopra un intero articolo!).

Troppo spesso ci ritroviamo davanti a romanzi che ci sbattono in faccia alla prima pagina un “New York, Oggi” o un “Inghilterra, Mille-ottocento-quello-che-è”, senza conservare col prosieguo un minimo di identità. Per la serie “potrebbe essere anche ambientato sotto casa mia”.

Descrizioni inadeguate, linguaggio informale e moderno, credibile come uno arcaico e ricercato in un quartiere del Brox, o le reazioni inverosimili dei personaggi davanti a un particolare contesto temporale.

Quello che cerco di spiegare, da scrittore, ma anche da lettore, è che l’ambientazione (termine fin troppo vago, me ne rendo conto) è un personaggio in piena regola. È un co-protagonista, il più importante, quello che alla lunga può fare la differenza. Non dovrebbe mai essere sottovalutato.

Dopotutto, altra abusatissima citazione, l’importante non è la destinazione, ma il viaggio, e in un buon romanzo il viaggio è come un teatro di posa: ogni atto dello spettacolo deve avere la sua caratteristica scenografia. Senza di essa ci sarebbero solo quattro idioti in costume davanti a uno sfondo di cartapesta.

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