“Storie di un Viaggiatore Immortale” – Andrea Casalboni

“Storie di un Viaggiatore Immortale” – Andrea Casalboni

2.98

“Storie di un Viaggiatore Immortale” è la storia di uno che si nutre di storie, e che per farlo viaggia per il mondo tra i secoli. Riflettendo sempre di più sull’umanità. E sulle storie, ovviamente.

Genere: Romanzo storico, fantastico, raccolta di racconti

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Descrizione

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Tristan Garden, nato nella campagna inglese del XIV secolo, non è un uomo come tutti gli altri: non gli servono cibo e acqua per nutrirsi, ma storie, lette o ascoltate.
Le Storie di un Viaggiatore Immortale altro non sono che la vita di Tristan, raccontata da lui stesso, una vita fatta di  pellegrinaggi e avventure a cavallo tra i secoli fino ai giorni nostri, cibandosi delle tante storie di un’umanità in perenne mutamento, ma che, come riflette amaramente Tristan, ripete spesso gli stessi errori. Le peregrinazioni e i viaggi di questo strano eroe, che invecchia quando racconta o scrive ma ringiovanisce quando ascolta o legge, sono alternate di continuo a brevi racconti di varia natura ma sempre carichi di spunti di riflessione sulla natura umana e sul potere dell’atto creativo, qualunque esso sia.
Storie di un Viaggiatore Immortale di Andrea Casalboni, a metà tra un romanzo e una raccolta di racconti, tra la storia e la finzione, è in parte un viaggio tra i continenti e i secoli, in parte una sintesi sulla storia della civiltà moderna e in parte una retrospettiva agrodolce sugli uomini, sulle loro azioni, sulle loro passioni e, ovviamente, sulle loro storie.

 

Informazioni aggiuntive

Anteprima

Il parto e la favola

La scena si apre in collina, in una notte invernale. Nubi temporalesche si sono addensate tutto il giorno sulle lande desolate di quell’angolo di Cornovaglia, e adesso pare che la tempesta sia finalmente in procinto di scoppiare. Tuoni si odono in lontananza, ma nella casetta ai margini del villaggio, poco più di quattro pareti sormontate da un tetto, vengono ampiamente sovrastati dalle urla di una donna.
Sta partorendo.
L’uomo terrorizzato al suo fianco è il marito. Henry Garden è un individuo tutto d’un pezzo. Ha visto la guerra. È sopravvissuto alla peste. Ha superato la carestia. Eppure, in questo momento, è stordito dalla paura, paralizzato dal terrore. Tutte le cose che ha visto e che ha fatto non lo hanno preparato a ciò che sta avvenendo a pochi metri da lui.
È un contadino, ha visto partorire mucche, cagne, giumente. Non è la stessa cosa.
Per Dio! Non è la stessa cosa!
L’esserino piangente ricoperto di liquami rossastri non è un vitello, né un cucciolo di maiale. È suo figlio, il suo unico erede. Adesso che è giunto in questo mondo, Henry dovrà nutrirlo, crescerlo, educarlo. Badare che sopravviva anche lui. Preoccuparsi che riceva un’istruzione decente. Far sì che alla sua dipartita gli rimanga qualcosa di cui campare.
È suo figlio, il suo unico erede. Porterà avanti il nome di famiglia. Dovrà essere sano e forte, ed è compito del padre assicurarsene. Quell’esserino piangente, pensa Henry, è ciò che resterà di me quando sarò morto. Il mio bambino.
Il terrore deve trasparire sul suo volto, perché la vecchia che sorregge il piccolo sta ghignando, nel fissarlo. La vecchia. La levatrice. La strega. Hebamme.
Sforzandosi di metter su una faccia impassibile, nascondendo il panico che lo attanaglia, Henry distoglie lo sguardo dalla scena. Quando torna a posarlo sul trio vicino al letto – sua moglie Lynn che dorme, sfinita, e Hebamme che regge il bambino – qualcosa è cambiato.
Fuori, i tuoni sono svaniti in lontananza. Dentro casa, la vecchia non ghigna più.
E il piccolo ha smesso di piangere.

È mattina quando Henry si sveglia, destato dal bussare alla porta, e quasi cade dalla sedia su cui si era pesantemente accasciato a notte fonda, chiudendo finalmente gli occhi dopo essersi assicurato che sua moglie e suo figlio stessero bene.
Quando apre, ancora assonnato, deve abbassare lo sguardo per accorgersi che di fronte a lui c’è Hebamme, in paziente attesa di poter entrare. È solo in questo momento che Henry ricorda le parole che la vecchia gli ha rivolto la sera prima: «Tuo figlio… Devo verificare una cosa, ma temo che domani al mattino dovremo parlare». E adesso eccola lì, piccola e rugosa, in piedi accanto al letto, che scuote dolcemente Lynn fino a quando questa non si sveglia dal torpore.
«Mi dispiace svegliarti così, Lynn, cara, ma c’è una cosa che devo dirti», dice. Si volta verso Henry e si corregge, aggiungendo «a entrambi». Lynn, ancora intontita dal sonno, si strofina gli occhi, sul volto giovane un’espressione confusa. «Cosa c’è, Hebamme?», mormora, la bocca impastata dopo il brusco risveglio.
«Si tratta di vostro figlio».
Queste parole bastano a destare completamente la giovane, e anche Henry si avvicina al letto con espressione preoccupata. «È quello che mi stavi dicendo ieri sera? Hai controllato?», chiede impaziente, inquieto, afferrando per un braccio la strega. Lei si divincola, infastidita. «Il bambino… È strano», dice. «Ho scrutato il suo futuro nelle tenebre», soggiunge, facendo seguire all’affermazione una piccola pausa, quanto basta per terrorizzare i due genitori, così che aprano bene le orecchie e che ciò che lei ha da dire si imprima a fuoco nella loro memoria.
«Non è come noi. Lui… rifiuterà il cibo normale», prosegue, lentamente. Mormora ogni parola con attenzione, combattendo la rochezza della sua voce anziana per far sì che ogni motto sia enunciato con cristallina chiarezza. Il padre la interrompe subito, allarmato: «È… un demone?», chiede, titubante, ma la vecchia lo mette a tacere con un gesto stizzito. «Si nutrirà di storie», conclude, con un sospiro rassegnato, come se esprimere ad alta voce la cosa servisse a convincere anche lei che ciò che sta dicendo corrisponde a verità. Come se fino ad allora lei stessa non fosse stata capace di credere a ciò che ha scorto nel buio notturno, tra le stelle, la notte precedente.
«Più gliene saranno raccontate, più ne leggerà, meglio crescerà: sarà più forte e più sano; ma se dovesse restare senza, deperirà e s’indebolirà fino a morirne». I genitori si guardano, combattuti tra la preoccupazione per le strane caratteristiche del figlio e il sollievo che non sia un mostro, un figlio del demonio.
«Cosa dobbiamo fare?», chiede infine Lynn, stringendo la mano di un Henry ancora attonito. Hebamme tentenna, incerta sul da farsi. La risposta è lì, ci ha riflettuto a lungo, ma dubita che ai due possa piacere. Solo che non le viene in mente altro.
«Nessuno deve saperlo, o lo bruceranno sul rogo», mormora a mezza voce. «Ma non potete neanche tenerlo con voi: se anche tutto il villaggio si mettesse a inventare storie, non avremmo di che nutrirlo come si deve, a lungo andare», prosegue, e la sua voce si fa sempre più incerta e flebile.
«Datelo ai monaci», esala infine, quasi inudibile.
«Appena sarà grande abbastanza, spiegategli che deve tenere il segreto, e mandatelo al monastero», continua, sotto lo sguardo incredulo dei genitori. «Lì hanno manoscritti, pergamene, gli insegneranno a leggere, potranno prendersi cura di lui».
Solo adesso Henry trova la forza di interrompere, di porre la domanda che lo sta rodendo da dentro: «Non sarà… rischioso?», chiede, e la sua voce è rotta da tristezza e incredulità.
«Sì», risponde la strega. «Ma è l’unico modo».

È in questo momento che il pianto del bambino interrompe il discorso: il piccolo è sveglio e ha fame. La giovane Lynn lo prende tra le braccia e lo culla dolcemente, ma il suo sguardo interrogativo corre alla vecchia, in cerca di consigli.
Hebamme si avvicina dolcemente. Un dito secco e rugoso accarezza la fronte del bambino, mentre mormora, teneramente: «raccontagli una favola».

Il bambino aveva un nome: Tristan. Tristan Garden, come suo padre. E questo è l’inizio della sua storia. O almeno, è così che me l’ha raccontata mio padre, Henry Garden. Sì, perché quel bambino ero io.

La strega
«La vecchia è una strega!», dicono alcuni. «La vecchia è una strega!», ripetono molti.
E spuntano le torce e i forconi, le zappe e le vanghe e i randelli.
La bambina vorrebbe gridare «Non è vero, lasciatela in pace!» ma la vecchia è stata chiara: non deve immischiarsi. Se parli, sarai bruciata come mia apprendista, quindi taci, le ha detto. E lei tace, in silenzio, tenendosi dentro tutta la rabbia per quegli uomini stupidi e ciechi che non capiscono niente e per il loro villaggio pieno di persone arrabbiate e stupide, incapaci di comprendere che la vecchia ha solo cercato di aiutarli.
È notte e le luci delle fiaccole lanciano terribili ombre sulle case del paese, ombre di uomini armati e feroci, ombre di paura con un sottofondo di urla crudeli. Corrono, gli uomini, e le donne con loro, che li spingono e li esaltano, stringendo gli infanti al petto e tenendo i bambini per mano. Sono vestiti di cenci, sono contadini e pastori, c’è un oste e c’è un fabbro, qualche mercante; la maggioranza sono poveri, uomini e donne, e probabilmente neanche loro sanno che cosa stanno facendo.
La folla si muove in avanti, lungo la strada del paese, tra urla e fragore di passi e sfrigolare delle torce toccate dal freddo vento invernale, che lì sulle montagne imperversa a tutte le ore del giorno e della notte. Ogni tanto un cavallo nitrisce, nelle stalle, e anche le mucche e le pecore si agitano percependo il caos che si aggira tra la gente, rendendo quelle persone un tempo umili pronte a tutto, feroci e spietate.
Il clamore esce dal paese, e ora che son circondati dagli alberi alti e possenti della foresta tutti sembrano meno spavaldi. Il gruppo si stringe, gli uni si avvicinano agli altri e il passo è più lento, circospetto, tutti guardano inquieti le ombre dei cipressi che si agitano, dando vita a strane forme sotto l'influsso delle torce. Più d’uno ha la tentazione di gettar la fiaccola verso quegli ammassi di oscurità che sembrano attendere oltre il ciglio del sentiero, per liberarsi di quel senso di oppressione, ed è la paura di rimaner disarmati a fermarli, non il timore di dar fuoco al bosco per niente.
La bambina li segue in silenzio, stretta agli ultimi della fila, continuando a sperare che qualcosa li faccia desistere, un pericolo li trattenga o uno scrupolo gli ingiunga di fermarsi; ma niente di tutto questo accade, la folla prosegue, pur senza urla e piena di sommessi, timorosi mormorii.
Quando giungono in vista della radura, si fanno ancor più stretti, ma qualcuno abbandona il gruppo avanzando, da solo o con qualche compagno, protendendo in avanti i forconi come per difendersi da un mostro anche se non c’è nessuno davanti a loro, solo una casupola in fango e mattoni, con un tetto di paglia e una mangiatoia sul fianco, per gli animali, tutti fuggiti all’approssimarsi della gente del villaggio.
Davanti alla casa, la folla si apre a ventaglio, la gente cerca di vederne la porta, pur chiusa. Della vecchia non c’è traccia, e la bambina comincia a sperare che abbia seguito il suo consiglio, sia fuggita, anche se sul momento si era detta contraria. Non c’è segno di vita: potrebbe averlo fatto davvero.

Tutto è cominciato molto tempo prima, in realtà. Con la madre della vecchia, in un luogo molto lontano, vicino al mare. Anche lei era una donna di grande sapienza, aveva lavorato come levatrice e balia; e questo era tutto ciò che la vecchia ne sapeva. Del padre, invece, non aveva che un ricordo remoto, evanescente. Era morto quando lei era molto piccola, così le avevano detto. Sua madre aveva badato a lei.
Almeno fino al rogo, ovviamente.
Anche oltre, a ben pensarci, visto che solo grazie ai suoi insegnamenti era riuscita a sopravvivere dopo la fuga. E a mantenersi, a trovare un villaggio che la accogliesse e le permettesse di restare, anche se estranea e sola. Ovviamente, del suo passato la folla non sapeva niente, ma la bambina sì; e a ragione sta temendo per la donna che l’ha accudita e cresciuta.
Donna che ora appare sulla porta della sua abitazione assediata, l’immagine della dignità e della tristezza mentre accetta placidamente il destino che la gente che aiutava ha deciso per lei.

Urlano, imprecano, le agitano le torce a pochi centimetri dal viso ma niente, lei non risponde né si ritrae, continua a fissarli. Gli occhi gelidi e immobili, privi di reazione, spaventano quei contadini superstiziosi più di ogni altra cosa, e il coraggioso di turno si ritrae, incupito, toccando ferro appena riesce per proteggersi dal malocchio e dalle maledizioni che la strega potrebbe avergli lanciato. Le hanno legato le mani e i piedi con una corda robusta e ora la stanno portando nella piazza del villaggio, in un corteo muto e lugubre, che la vecchia guida con l’atteggiamento compassato e dignitoso di un conducente di carrozza, dettando il passo alla folla che la segue.
Attraversando la foresta la gente del villaggio torna ad avvertire la pressione che quei boschi di notte hanno su di loro, normali, umili persone, e l’effetto è come decuplicato dalla presenza della strega e dalla consapevolezza, profondamente nascosta in ciascuno di loro, che stanno per compiere qualcosa di terribile. Ogni passo sulla terra battuta del sentiero è un tormento, ogni fruscio di foglie e ondeggiare d’ombra uno spavento. E quando un gufo plana sul gruppo, disturbato nella sua caccia notturna dai bagliori delle torce, gli sguardi subito corrono a lei, come se l’avesse silenziosamente chiamato, e tutti si stringono gli uni agli altri, nel timore di un attacco.
Le voci sui poteri delle streghe girano da tempo, in quelle terre: c’è chi dice che possano trasformarsi in bestie e chi sostiene che parlino con gli animali; c’è chi insinua che controllino le fiere notturne e chi le accusa dell’uccisione dei bambini. È stato questo a scatenare la caccia, il giorno prima: la morte di un neonato. Una creaturina di due settimane, piccola e con problemi respiratori fin dai primi minuti fuori dal ventre della madre, così che da subito era girata voce che il parto fosse stato maledetto, la gravidanza disturbata da un malocchio.
Poi, contro il volere del parroco, consultato al momento del battesimo, era stata chiamata la vecchia. Questa fin da subito aveva dato poche garanzie, ma gli abitanti del villaggio non ricordano, o hanno scelto di dimenticare. Aveva consigliato alla madre di nutrire il bambino più spesso, e a questi aveva fatto respirare un infuso, poi aveva regalato loro un gallo, dicendo alla donna di farci un brodo quella sera stessa. Quando dopo due giorni il bambino era morto, il prete, che da anni le parlava dietro, non aveva perso tempo, accusandola di stregoneria.
La bambina l’aveva sentito mentre chiamava a raccolta i membri del villaggio ed era corsa dalla vecchia, per avvisare l’unica persona cui tiene, lei ragazzina di dieci anni, orfana di madre e con un ubriacone violento, il fabbro del villaggio, come padre. E la vecchia, per tutta risposta, aveva riso, aveva scrollato le spalle e aveva detto sono dei poveri fessi, ma non scapperò. Forse per proteggere la bimba, forse perché ben conscia, a ottant’anni suonati, di avere poche possibilità sulle strade; in autunno inoltrato non sarebbe riuscita ad arrivare lontano.

Adesso la bambina osserva in silenzio, cupa, ciò che avviene all’altro capo della piazza. Il prete sta benedicendo le fascine di legno secco imbevute d’olio, mentre la croce posta sul palo getta una strana ombra al suolo e la nebbia mattutina stravolge e attenua la luce solare. Un uomo a cavallo, riccamente vestito, attende a fianco del prete: è il signorotto locale che ha appena emesso la sentenza. Quando hanno chiesto alla vecchia se avesse dei complici lei ha negato, e il fabbro ha avuto lo spirito di tacere, per non mettersi nei guai di fronte al lord, il quale, già annoiato, aveva sbrigativamente concluso il processo.
Ecco, la trascinano fuori, e la piccola ancora una volta deve trattenersi dall’urlare, dal mettersi in mezzo, ma la paura la attanaglia e le tiene le labbra strette e la gola riarsa, così non spiccica parola. La folla rumoreggia, sputa insulti e urla crudeli, i vicini si esaltano l’un l’altro. Volano sassi e ramoscelli, ma la vecchia ancora una volta non fa niente per difendersi salvo fissare i suoi assalitori, e la pioggia di oggetti cessa, rapida com’è cominciata.
La issano sui rami ritorti e secchi, attenti a che non scivoli, e lei si erge, legata al palo, più in alto di tutto il villaggio riunito ai suoi piedi. Il signore dall’arcione pronuncia la sentenza, il prete mormora una preghiera e le ingiunge di pentirsi. Lei china il capo, un istante, poi ride. «Stolti!», dice, e tace. Il boia del castello, acciarino e pietra focaia alla mano, accende uno straccio e da lì una torcia che a un cenno del padrone viene gettata sul cumulo, e il fuoco divampa. Le fiamme partono dalla base e man mano si alzano, conquistando terreno, fino a lambire le vesti della vecchia, ma il fumo si fa strada, copre rapidamente la scena.
Dalla foresta giunge un batter d’ali, un gufo poggiato sul ramo di un albero osserva la scena in silenzio. Poi un’ombra scura si staglia sul grigio del fumo e una civetta ne erompe, tra lo stupore e lo spavento della folla. Stringe un topo tra gli artigli, e prima che chiunque possa dire alcunché vola via.
La strega? Chissà.

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